Draghi e Macron propongono una strategia unitaria per fronteggiare le sfide globali, incertezza sull’effettiva coesione degli Stati membri

Di: Andrea Panziera

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“Se vogliamo garantire un futuro all’Unione Europea, dobbiamo essere in grado di sviluppare ora un nuovo strumento strategico per il coordinamento delle politiche economiche. E se dovessimo scoprire che ciò non è fattibile, in casi specifici, dovremmo essere pronti a considerare di procedere con un sottoinsieme di Stati membri. Ad esempio, una cooperazione rafforzata potrebbe essere una via da seguire per mobilitare gli investimenti. Ma di norma, credo che la coesione politica della nostra Unione richieda che agiamo insieme – possibilmente sempre. E dobbiamo essere consapevoli che la stessa coesione politica è oggi minacciata dai cambiamenti nel resto del mondo. Ripristinare la nostra competitività non è qualcosa che possiamo raggiungere da soli, o solo battendoci a vicenda. Ci impone di agire come Unione Europea in un modo mai fatto prima. I nostri rivali ci stanno precedendo perché possono agire come un unico Paese con un’unica strategia e allineare dietro di essa tutti gli strumenti e le politiche necessarie. Se vogliamo eguagliarli, avremo bisogno di un rinnovato partenariato tra gli Stati membri – una ridefinizione della nostra Unione che non sia meno ambiziosa di quella che fecero i padri fondatori 70 anni fa con la creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio”. Also sprach Mario Draghi e condivido ogni sua parola, nonché il senso di codice rosso che l’intero ragionamento sottintende. Inutile girarci attorno: lo scenario internazionale nelle ultime settimane è profondamente mutato. I BRICS a trazione cinese con l’allargamento dei Paesi aderenti e l’ipotesi del petroyuan come valuta di riferimento, la rielezione di Trump, le crescenti difficoltà politiche di Germania, Francia e Spagna rappresentano una grave minaccia socioeconomica per tutto il Vecchio Continente, ma ad ogni evidenza manca la comune consapevolezza delle possibili e probabili conseguenze nel medio – lungo termine. Il prossimo Presidente USA ha proposto a Robert Lighthizer, noto per le sue idee ultra protezioniste e per essere un falco sui dazi, di essere il futuro rappresentante per il commercio della sua amministrazione, ruolo che aveva già ricoperto in quella precedente. Riguardo al destino del Made in Italy, se Trump dovesse dare seguito alla promessa elettorale di alzare i dazi tra il 10% e il 20% sulle importazioni dal resto del mondo, il centro studi Prometeia ha calcolato per l’Italia un impatto negativo tra i 4 e i 7 miliardi di euro l’anno. In caso di aumenti solo su prodotti già colpiti, l’agroalimentare sarebbe il più penalizzato. Se invece i ritocchi fossero generalizzati, in quel caso anche le industrie ad alta intensità tecnologica potrebbero subire conseguenze rilevanti. Studi ed analisi condotte da altri Istituti sono giunti alla conclusione che un aumento dei dazi del 10% potrebbe comportare per l’Italia una perdita di PIL dello 0,4%, che in cifre assolute significa circa 8 miliardi, mentre per la Germania sarebbe circa dello 0,5% e per la Francia dello 0,3%. L’insieme di questi concetti sono stati viepiù ripresi e rafforzati da Draghi nel suo deciso intervento al recentissimo vertice dei Capi di Governo a Budapest e Ursula von der Leyen si è detta disponibile a far propria l’agenda del nostro ex Presidente del Consiglio. Tutto ciò si dovrebbe tradurre nella presa d’atto che non è più eludibile l’impegno di predisporre a livello Comunitario una strategia che si ponga come chiaro obiettivo una Federazione europea coesa perché «da soli siamo troppo piccoli». Solo così si può trattare «con l’alleato americano, in maniera tale da proteggere anche i nostri produttori europei». E nell’ attuare il nuovo corso sarà necessario anche aumentare il profilo della Difesa europea: «È possibile spendere il 2% del Pil in questo settore rispettando il Patto di stabilità». Il Rapporto Draghi, dunque, rappresenta le potenziali linee guida che indirizzeranno il seguito della legislatura europea. Nella dichiarazione finale del vertice si sottolinea che «le sfide di competitività che affrontiamo richiederanno investimenti significativi, mobilitando finanziamenti sia pubblici che privati. Ci impegniamo a esplorare e sfruttare tutti gli strumenti e i mezzi per raggiungere i nostri obiettivi». La questione non risolta tuttavia è quella relativa alla concreta declinazione delle parole “strumenti e mezzi”. Tra le righe parrebbe spuntare l’ipotesi del ricorso a un nuovo debito comune come è stato col Recovery Fund. Per finanziare il “pacchetto Draghi” serviranno almeno 800 miliardi l’anno. E anche durante il vertice ha suggerito varie possibili forme di finanziamento oltre agli eurobond. «La Commissione — ha annunciato von der Leyen — presenterà a giugno la sua strategia basata sul rapporto di Mario» che «ci indica la strada». Bisognerà associare le misure per l’industria, definite “clean deal”, ma resta l’esigenza base: «Per finanziare le priorità comuni, anche sulla difesa, non è intelligente procedere individualmente, ma è molto meglio finanziarle su scala europea». Questo
è il vero nodo da sciogliere. L’unanimità, soprattutto sull’eventuale ricorso al debito comune, così come su molte altre questioni (leggi ad es. le politiche di sostegno all’Ucraina aggredita), nell’Ue ancora non si registra. I Paesi nordici c.d. “frugali” appaiono refrattari se non del tutto contrari, sebbene il Cancelliere tedesco Scholz, che però ha un mandato a tempo determinato, abbia ammesso che il report è «un inequivocabile campanello d’allarme per l’Europa». Oggi, come quasi sempre accaduto dopo la seconda Guerra mondiale, il Vecchio Continente senza una posizione condivisa guarda gli Usa con riverenza e timore. HuffPost, in un suo ottimo editoriale, ricorda come nel 2002 lo storico Robert Kagan, uno degli intellettuali organici ai neocon che sostenevano George W. Bush nell’impresa di diffondere la democrazia nel mondo, espose la sua tesi sulla diversa origine planetaria di americani ed europei: loro, discendenti di Marte e sempre pronti alla guerra, noi figli di Venere, ammiccanti, seducenti, ma sempre problematici e timorosi. Emmanuel Macron, forse il più lucido dei leader europei presenti a Budapest, alla riunione dei suoi colleghi, tra cui quarantadue Capi di Stato e di Governo, ha plasticamente descritto lo stato delle attuali relazioni internazionali: “Il mondo è composto di carnivori ed erbivori. Se si decide di rimanere erbivori, i carnivori vinceranno e noi saremo un mercato per loro. Non sarebbe male – ha detto il presidente francese con una smorfia amara – decidere di diventare almeno onnivori. Non per essere aggressivo, ma non voglio vedere l’Europa come un grande teatro dove i carnivori vengono a divorarci. All’indomani delle elezioni americane dobbiamo essere lucidi, ambiziosi e determinati”. Lui, invero, è stato fra i primi a congratularsi con Trump, aggiungendo solo una chiosa: “Il popolo americano ha deciso e lui difenderà gli interessi dell’America. La sola questione che si pone è se noi siamo pronti a difendere i nostri interessi”. La narrazione macroniana si rivolge all’Europa allargata, intesa non solo come Unione Europea, ma come quello spazio geografico e geopolitico chiamato Comunità Politica Europea: circa 700 milioni di abitanti che, nel corso dei secoli, si sono affrontati a più riprese in guerre feroci e devastanti anche a distanza di pochi decenni, ma che ora hanno l’opportunità di tramutare l’elezione di Trump in un’occasione: “È il momento giusto per decidere se vogliamo leggere la storia fatta dagli altri o se decidiamo di scriverla noi”. L’appello di Macron si fonda su tre punti cardine: pace, prosperità, democrazia. Rispetto alla pace, la sua visione è netta: “Il nostro interesse è che la Russia non vinca questa guerra con l’Ucraina. Altrimenti avremo una potenza imperiale ai confini, che può decidere in qualunque momento di invadere qualunque altro Paese. E intorno a questo tavolo nessuno può sentirsi tranquillo”. Le sue parole sembrano rivolte in particolare a Viktor Orbán e a tutti quei Paesi dell’Europa centro – orientale che nel secolo scorso hanno sperimentato sulla pelle del propri concittadini le dure conseguenze delle invasioni russo-sovietiche. Ma anche a tutti i filo putiniani sparsi nei vari Stati ad ovest, che neanche tanto sottotraccia hanno festeggiato per la vittoria di Trump, ignorando o sottovalutandone le conseguenze. Per quanto concerne la prosperità, Macron ha fatto un esplicito riferimento al rapporto di Mario Draghi in merito al rilancio della competitività, con l’obiettivo di non essere solo dei “clienti”, delegando agli altri (Cina in primis, ma non solo) piattaforme di produzione e scelte di mercato. Terzo punto, ma sicuramente non ultimo in quanto a valenza, la difesa del nostro modello di democrazia liberale, diventato oggetto di scherno e azioni intrusive da parte dei sistemi autocratici come la Russia, che quasi ogni giorno si cimenta in cyber attacchi, corredati dalla diffusione di ogni sorta di fake news e dalla costante manipolazione dell’informazione: “Se diventiamo teatro di propaganda per ingenuità o per apertura, offrendo infrastrutture senza operare sulla regolamentazione dei contenuti, le nostre democrazie saranno spazzate via”. Draghi e poi Macron, che ne ha sviluppato il pensiero, hanno colto nel segno. Il problema però rimane il solito: quanti leader saranno disposti da qui a sei – otto mesi a dare seguito con atti e fatti a questi propositi, all’apparenza condivisi da quasi tutti gli attori del meeting di Budapest? Oppure inizierà la corsa al bacio della pantofola del nuovo inquilino della Casa Bianca, sperando in un trattamento più benevolo, ovvero di un piccolo e marginale spazio nello strapuntino che il tycoon riserverà ai suoi interlocutori non americani? L’aria che tira, le posizioni reticenti o ambigue, le attuali difficoltà di molte leadership nei rispettivi Paesi, non inducono a particolari professioni di ottimismo, ma attendiamo con la necessaria cautela lo sviluppo degli eventi.