Le letture frettolose e superficiali di dati rischiano di ingenerare illusioni e/o false aspettative, un po’ come avviene per chi confonde oro e ottone

Di: Andrea Panziera

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L’oro è un metallo prezioso, perché una delle sue peculiari caratteristiche è la rarità. È bello, con le sue particolari proprietà fisiche e la sfumatura color giallo. A differenza di molti altri metalli resiste alla corrosione e può essere modellato in differenti e incredibili forme. Possiede doti di grande versatilità ed oltre al settore della gioielleria trova applicazione in molte altre imprese industriali, dall’elettronica alla chimica e non solo. L’ ottone, in apparenza visiva simile all’oro, è una lega ossidabile composta da una parte di zinco (dal 15 al 30%) ed una di rame (dal 70 all’ 85 %) . Si tratta di uno dei materiali prescelti per creare bigiotteria anallergica, senza nichel o piombo. Ça va sans dire, il suo valore è infinitamente minore di quello dell’oro, anche se qualche persona poco esperta può confonderli facilmente. Esiste più di un metodo per scoprire se siamo in presenza dell’uno o dell’altro. Fra i più banali vi è quello di avvalersi di un comune accendino: non si corre alcun rischio di rovinare l’eventuale gioiello, perché l’oro possiede una temperatura di fusione assai elevata, pari a circa 1000 gradi, la qual cosa implica la totale impossibilità per la fiammella di arrecare danni. L’effetto, invece, sarà quello di rendere il metallo prezioso addirittura più luminoso. Di contro, gli oggetti di mera bigiotteria subiranno una mutazione di colore, divenendo più scuri. Per quale motivo ho indugiato su questa premessa, all’apparenza assai poco attinente con le tematiche delle quali sono solito occuparmi? Perché le letture frettolose e superficiali di dati, soprattutto se questi attengono a fattispecie economiche di per sé già abbastanza complesse, rischiano di ingenerare illusioni e/o false aspettative, un po’ come avviene per coloro i quali confondono il metallo di pregio con uno molto meno nobile; non necessariamente una patacca, ma un bene dal valore intrinseco di gran lunga minore. Ho la netta sensazione che questa errata percezione, ben alimentata da alcuni media partigiani o quantomeno compiacenti, venga veicolata “ad usum delphini” per configurare un andamento economico difforme dalla realtà. Nei giorni scorsi, le notizie di apertura di molte edizioni dei TG hanno acceso fari abbaglianti sui dati del mercato del lavoro, allo scopo di evidenziare che nel 2023 vi è stato un aumento di circa 500 mila unità del numero degli occupati. A chi è poco avvezzo a districarsi fra le stringenti ma ineludibili logiche economiche, questo annuncio, tradotto in termini di percentuali di crescita relative alla creazione di nuovi posti, sarà sembrato come la conferma di un luminoso avvenire alle porte: “eureka, finalmente stiamo sconfiggendo l’annosa piaga della disoccupazione!” Certo, di per sé il dato ha connotati positivi, anche se per un giudizio più attendibile sarebbe necessaria un’analisi della tipologia e qualità delle attività richieste. Ma anche prescindendo da questo, pur doveroso, approfondimento metodologico, una domanda appare ineludibile: “Come è possibile che in un anno gli occupati salgano di oltre il 2%, quando la crescita del nostro sistema economico, ben che vada, arriverà allo 0,7-0,8%? Le risposte verosimili, in realtà, non sono molte e si riducono sostanzialmente a due: a) un calo consistente della produttività, già bassa rispetto ai nostri principali competitors europei b) crescita di posti di lavoro “low quality”, part-time, precari o per mansioni poco gratificanti. Spiegazioni alternative non ce ne sono e le statistiche macro attese per i prossimi giorni chiariranno questa contraddizione solo apparente. Peraltro, che il nostro sistema economico stia attraversando una fase non proprio scintillante non sono io a dirlo, ma tutti gli esperti, in primis l’Ufficio Studi di Bankitalia. In un suo recentissimo intervento, il Governatore Fabio Panetta ha fatto queste affermazioni:“ Prevediamo che il 2023 si sia chiuso con una crescita del PIL fra lo 0,6 e lo 0,7% e nel 2024 sarà sotto l’1%, per poi raggiungere questo obiettivo nel 2025”. Anche l’esultanza per il modesto calo del nostro Debito Pubblico dello scorso mese di novembre, dopo il massimo assoluto a 2.867 miliardi toccato a ottobre, appare quantomeno esagerata. Aspetterei il dato di fine anno, ma in ogni caso non va dimenticato che gli attuali 2.855 miliardi di euro si traducono in un rapporto sul PIL pari a circa il 140%, rispetto al 109% della Francia, al 107% della Spagna, al 65% della Germania, con una media europea di poco superiore al 90% . Oltretutto, quasi tutte le stime concordano nel ritenere che nel nostro caso questo rapporto sia destinato a salire nei prossimi anni, fino ad arrivare al 141% nel 2025. Certo, gli acquirenti dei nostri Titoli di Stato non mancano, sia in Italia che all’Estero, ma a che prezzo? Il loro costo medio all’emissione è passato dallo 0,1% del 2021, all’1,71% del 2022, volando al 3,76% del 2023, superando con questi numeri anche il 3,61% a cui era schizzato al culmine della crisi del 2011. Ma i debiti prima o poi vanno ripagati e nel frattempo costano salatissimi interessi. Il loro peso passerà dal 3,8% del PIL del 2023, al 4,2% di quest’anno, al 4,3% del 2025 fino ad arrivare al 4,6% nel 2026. In soldoni, si tratta di 78 miliardi di euro nel 2023, di 89 miliardi quest’anno, di 94 miliardi nel 2025 e di 104 miliardi nel 2026: in totale l’esborso sarà pari a 280 miliardi di euro. Appare del tutto evidente che la prospettata vendita di alcuni “gioiellini di famiglia”, con un ricavo di qualche miliardo, come una quota di ENI o di altre partecipate dello Stato, rappresenta una goccia nel mare, ammesso e non concesso che ciò costituisca la via maestra per cercare di raddrizzare una situazione finanziaria traballante. Soprattutto se altre “Alitalia”, con tutto quello che ciò comporta, si stagliano nitidamente all’orizzonte (leggi ILVA e non solo).