Ogni volta che i venti di guerra soffiano in Medio Oriente, molti leader politici mondiali ritornano ad invocare la salvifica soluzione

Di: Andrea Panziera

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Condivido in toto le parole di papa Francesco: “l’unica possibile soluzione al conflitto arabo-israeliano è la creazione e la pacifica convivenza di due popoli e due Stati”. In realtà, ogni volta che i venti di guerra soffiano in Medio Oriente, molti leader politici mondiali, soprattutto ma non solo occidentali, ritornano ad invocare la salvifica soluzione. Ma dopo questa enunciazione, dovrebbe seguirne un’altra o, meglio, altre due. Come riuscire a raggiungere questo obiettivo e perché sino ad ora, dopo tanti pronunciamenti a suo favore, non se ne è fatto nulla. Forse, a questo punto, è il caso di riaprire qualche libro di storia e ripercorrerne le cause. Nel 1947 venne approvata dall’Assemblea generale dell’ONU la risoluzione 181, la quale prevedeva la bipartizione della Regione chiamata Palestina, che all’epoca era sottoposta al protettorato britannico, tra uno Stato arabo ed uno ebraico. Per chi l’avesse dimenticato, quella risoluzione venne respinta proprio dai Paesi arabi. E quando l’anno successivo fu proclamata la nascita della Nazione israeliana, essa venne attaccata da quegli Stati, che intendevano cancellarne l’esistenza e far fuggire gli ebrei immigrati. Chi dimentica questo “incipit”, o volutamente lo ignora, pregiudica la credibilità di ogni sua presa di posizione nella questione. In seguito, per molti decenni, tutto il consesso dei Paesi arabi si rifiutò di riconoscere l’esistenza legittima dello Stato di Israele. Nacque da quel diniego la scelta di Giordania ed Egitto di non assimilare la popolazione araba fuggita da Israele dopo il 1948, ma di considerarla lì insediata alla stregua di profughi permanenti. Ed è sulla base di questi eventi che fu fondata l’OLP e dichiarata l’esistenza di un popolo in esilio palestinese, che prima di allora non aveva mai avuto un’identità nazionale specifica. Vale solo la pena di ricordare che in tutti i conflitti successivi fra lo Stato ebraico ed i suoi vicini, i primi ad attaccare, appellandosi ai pretesti più singolari, sono sempre stati questi ultimi, venendo peraltro regolarmente sconfitti. Soltanto dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, ma soprattutto alla fine della guerra del Kippur del 1973, si ricominciò a parlare in sede internazionale di un possibile scenario che prevedesse la pace in cambio di concessioni territoriali; quindi della creazione di uno Stato arabo palestinese, il cui territorio si estendesse a Gaza e in Cisgiordania, che convivesse con quello ebraico. Il traguardo sembrava a portata di mano dopo gli Accordi di Oslo tra Rabin ed Arafat del 1993, rilanciato da Israele nel 2000 a Camp David. Ma all’epoca la parabola politica di Arafat era già entrata nella sua fase discendente ed a prevalere furono le posizioni estremiste di Hamas e del fondamentalismo islamico più duro, incoraggiato e finanziato dal regime degli Ayatollah. Questa è la verità storica, comprovata da documenti, fatti ed atti e, a prescindere dal mio giudizio personale sul Governo di Benjamin Netanyahu e dei suoi alleati di coalizione, invero pessimo, da questa verità non si può in alcun modo prescindere. I massacri del 7 ottobre scorso e tutti gli eventi successivi sono la fatale e forse inevitabile conseguenza di questa situazione. Mi fa specie dover commentare i reiterati atti di antisemitismo, palesi o vigliacchi, perché spesso perpetrati nell’ombra dell’impunità delle tenebre, di cui si fanno promotori, più o meno scientemente, anche persone intellettualmente e moralmente normodotate. Manifestazioni partecipate, spesso bipartisan nelle concomitanti componenti ultrà di colore politico, nelle quali si scandiscono slogan beceri e non di rado demenziali, che ignorano la storia o semplicemente la cronologia degli eventi, ovvero le cause scatenanti degli stessi. Adriano Sofri, di certo non accusabile di partigianeria filo-israeliana e con trascorsi politici noti all’inclita ed al colto, in un bellissimo articolo scrive che “ nessuno che guardi la giovane Shani Louk (una delle vittime del rave party) e resti umano, deve vergognarsi di desiderare la vendetta. Israele, in molte drammatiche occasioni, aveva dilazionato la vendetta per salvare vite minacciate: aveva ceduto al ricatto, riservandosi di farlo pagare carissimo a tempo debito. Aveva scambiato 10.000 prigionieri per 229, fissandosi nella memoria il nome e le facce dei ricattatori”. L’errore, a suo dire, è che “questa volta si è ricorso all’attacco indiscriminato, a una vendetta accecata dall’offesa e dall’ira”. Forse Sofri ha ragione, ma non è colpa di Israele se a Gaza i tunnel con i terroristici al loro interno corrono sotto le abitazioni civili, se le postazioni di lancio dei missili sono posizionate di fianco agli ospedali; i droni e tutti gli strumenti di tecnologia avanzatissima di cui è dotato l’esercito con la stella di David comunicano agli aerei queste informazioni e i piloti agiscono di conseguenza. È vero, non c’è differenza fra un bambino ebreo decapitato e bruciato ed uno palestinese morto sotto le bombe, così come non ce ne erano fra un ragazzino giapponese di Nagasaki o uno tedesco di Dresda ed un loro coetaneo americano. Ma il distinguo fra il regime nazista e la democrazia americana era ed è un imperativo categorico, così come lo è scegliere da che parte stare, consapevoli che se sei da quella giusta, non finirai in galera, o suicidato, se dissenti. Mi chiedo se, da questa visione etico – politica che con benevolenza estrema si potrebbe definire unilaterale ovvero patologicamente miope, non scaturisca anche la sordina posta ad atti efferati posti in essere da regimi nei quali i diritti civili minimali sono trattati alla stregua di carta igienica dopo l’uso. Per quale motivo non si è manifestato con la stessa convinzione e partecipazione contro il sistematico massacro delle donne in Iran, della popolazione in Cecenia, degli Uiguri in Cina o dei Curdi in Turchia? Va sempre più di moda il doppiopesismo come nuova categoria morale? Sarebbe interessante saperlo e trarne le necessarie conseguenze.