Dato per scontato – o quasi – che l’esperienza del Governo Draghi volge al termine, qual è l’eredità che ci lascia questo Esecutivo?

Di: Andrea Panziera

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Marx, nella prefazione del suo libro Per la critica dell’economia politica del 1859, scrive che l’elemento decisivo da cui è necessario partire per comprendere ogni società nella sua totalità, è «il modo di produzione della vita materiale», il quale «condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita». Da qui scaturisce la famosa distinzione fra Struttura (che potremmo definire il Sistema economico di un Paese in tutte le sue possibili accezioni e articolazioni) e la Sovrastruttura, ovvero le Istituzioni politiche, giuridiche e sociali. Mi perdoneranno gli esegeti delle opere marxiane per questa estrema semplificazione, che tuttavia in estrema sintesi ritengo renda comprensibile l’essenza del concetto. Non avendo le capacità e lo spessore culturale del pensatore di Treviri, molto più modestamente come preambolo alle mie lezioni spiego quali sono le principali motivazioni che a mio avviso dovrebbero stimolare gli studenti ad occuparsi di Economia. Le più importanti si riducono invero a due: perché serve per trovare risposte in un mondo la cui cifra identificativa è la crescente complessità; perché la conoscenza dei suoi meccanismi si rivela indispensabile per quasi tutte le scelte della vita quotidiana, in primis quelle lavorative, ma non soltanto. Mi preme sottolineare anche un altro aspetto. Ogni affermazione di natura economica spesso non ha valore assoluto ma va contestualizzata e la sua credibilità deve essere supportata da numeri provenienti da fonti attendibili e verificabili. Per quale motivo, si chiederà qualcuno, ho indugiato così a lungo su questa premessa? Per una ragione molto semplice, ovverosia la proliferazione incontrollata di luoghi comuni e asserzioni destituite di ogni fondamento, prive di qualsiasi riscontro numerico. Un esempio probante di questo florilegio di amenità lo si può ritrovare anche in questi giorni in molti dei commenti sulla crisi di Governo, sulla situazione economica del nostro Paese nonché sulle cause remote e recenti dei problemi che lo affliggono. Nutro rispetto per tutte le opinioni, soprattutto per quelle differenti dalle mie; un mondo in fotocopia sarebbe terribilmente noioso oltre che poco stimolante. Ma confesso di provare disagio, forse anche fastidio, quando leggo o sento affermazioni categoriche proferite con sicumera, magari veicolate da persone in buona fede, che le hanno raccattate qui e là sui social, o riprese da qualche scribacchino fazioso, ovvero ascoltate nel mare magnum dei talk show o da qualche politico la cui unica expertise è lisciare il pelo degli scontenti. A maggior ragione se provengono da amici, conoscenti o persone che prima di proferirle potrebbero sicuramente essere nella condizione di verificarne la veridicità. Quindi, nei limiti delle mie capacità, ritengo che sia doveroso fare un minimo di chiarezza e ripristinare l’oggettività dei numeri. Poi ognuno rimarrà libero di coltivare il suo orticello di idee, con l’auspicio che nasca qualche dubbio in più e qualche incrollabile certezza in meno. Ora, dato per scontato o quasi che l’esperienza del Governo Draghi volge al termine, qual è l’eredità che ci lascia questo Esecutivo? Il primo dato è quello sul PIL, il Prodotto Interno Lordo . Nel 2021 il suo valore ai prezzi di mercato è stato pari a 1.781.221 milioni di euro correnti, con un aumento del 7,5% rispetto all’anno precedente. In volume è cresciuto del 6,6%. Dopo anni in cui a livello comunitario eravamo quasi sempre stati nelle retrovie, nel 2021 il nostro tasso di crescita è stato il maggiore dell’area euro.

Le previsioni per l’anno corrente, appena pubblicate dalla Commissione europea, vedono l’Italia al secondo posto con un +2,9%, dopo la Spagna (+4%) e prima di Francia (+2,4%) e della Germania (+1,4%). Ovviamente, queste stime sono antecedenti alla crisi attuale, il cui impatto andrà verificato in seguito.
Le annunciate dimissioni di Draghi hanno avuto un effetto immediato sui Mercati finanziari, con una perdita, al netto del successivo rimbalzo, pari a circa 10 m.di di €. In realtà la variabile più critica è lo Spread BTP/Bund, il differenziale di tasso di interesse del nostro titolo di Stato decennale rispetto a quello analogo tedesco. In un Paese indebitato come il nostro, la salita dello Spread rappresenta un aggravio sui costi del nostro Debito Pubblico che a lungo termine può diventare insostenibile. La situazione è diventata critica dopo il 2011 (max 575); il termometro si è parzialmente raffreddato fino al 2018 (>80<180), per poi risalire nel 2019 (max 320). Un aumento di 100 punti dello spread equivale ad una maggiorazione dell’1% degli interessi da pagare. Con un debito medio nel periodo pari a circa 2.400 m.di di €, l’onere a carico dei Conti Pubblici e di riflesso sui cittadini risulta piuttosto agevole da calcolare.

Veniamo alle voci Debito e Deficit Pubblico, che da decenni costituiscono il freno a mano tirato sulla crescita.

Nel 2020, a causa degli effetti del Covid, il primo era salito ad oltre 156% rispetto al PIL. A fine 2021 era sceso di 6 punti. Analogo trend è quello registrato dal saldo primario (l’ indebitamento netto meno la spesa per interessi) misurato in rapporto al Pil, che è stato pari a -3,6% (-6,1% nel 2020). Il rischio paventato da tutti gli analisti, italiani ed esteri, è che queste discese virtuose si possano ora interrompere bruscamente. Se i mercati percepiscono che la potenziale preda è in difficoltà non esitano un attimo a diventare cacciatori. 2011 e 2019 docent.
Circola una convinzione, alimentata ad arte e fatta propria da fasce non proprio marginali della popolazione. Secondo questa vulgata, ci troviamo in una condizione dove molte imprese chiudono, non ne nascono di nuove, ci avviamo verso uno scenario di fame e miseria, contrassegnato da una disoccupazione sempre maggiore. Una mia amica ha paragonato la nostra situazione a quella dell’Argentina. Che si respiri un’aria di peronismo strisciante, che fa breccia anche nelle menti turbate di una discreta fetta dell’ex ceto medio è innegabile. Basta leggere le risposte ad alcuni sondaggi mirati effettuati da Centri di ricerca attendibili per averne conferma. La concomitanza di Covid e guerra, ha senza tema di smentita deteriorato il quadro d’assieme, che già prima non appariva proprio come un encomiabile esempio di efficienza ed efficacia, politica, amministrativa e socio-economica. Ma anche in questo caso, prima di esprimere giudizi piuttosto approssimativi forse sarebbe il caso di documentarsi, magari guardando un po’ aldilà del campo, dell’officina o del negozio del vicino. Di seguito due grafici. Il primo confronta il numero delle imprese che nell’ultimo anno hanno chiuso i battenti con quelle costituite ex novo. Il dato è ampiamente positivo, nel senso che le seconde sono molto più numerose delle prime. Il secondo evidenzia il trend del tasso di disoccupazione, in calo costante nell’ultimo anno e mezzo ed in quasi totale recupero dei livelli pre – pandemia.

ANDAMENTO DISOCCUPAZIONE 2010-2022

Da ultimo, quel catastrofico paragone con l’Argentina. Voglio rassicurare la mia amica. Ad oggi l’Italia ha un PIL/Pro capite tre volte maggiore di quello del secondo Paese sudamericano (35.000 $ contro 12.000$) ; loro negli ultimi 50 sono falliti una decina di volte e nonostante le continue ristrutturazioni del debito continuano ad avere grosse difficoltà a onorare quelli residui. Penso che pagherebbero tutto quel poco che gli è rimasto per far cambio con noi. Spero solo che qualche populista all’amatriciana, probabile vincitore della prossima contesa elettorale, non imbocchi quella strada. Allora sì che le nuvole mai svanite sul Belpaese si addenserebbero fino a diventare una vera e propria tempesta.