Dalle Alpi agli Appennini, dalle colline ai laghi, dalla pianura al mare, ormai si coglie inconfondibile il sentore di campagna elettorale

Di: Andrea Panziera

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Che bello, dalle Alpi agli Appennini, dalle colline ai laghi, dalla pianura al mare ormai si coglie inconfondibile il sentore di campagna elettorale. E vai: pensioni minime a 1.000 euro, abolizione delle odiose accise sui carburanti, milioni di alberi piantati dall’alba al tramonto di ogni giorno, blocco navale per fermare gli invasori dell’italico suolo che parte dall’India, risale lungo il Canale di Suez e arriva fino a Gibilterra ma soprattutto, udite udite, meno tasse per tutti. E’ un refrain già sentito, ma come certi motivetti d’antan conserva un suo fascino evergreen. Invero c’è qualcuno che, in modo un po’ improvvido, parla di nuove imposte (leggi Patrimoniale) allo scopo di finanziare un sorta di dote per i giovani. Una volta che questa proposta, ancora piuttosto fumosa, verrà formalizzata e dettagliata, avremo sicuramente tempo e modo per discuterne. In tutto questo scoppiettio di trovate, la cosa carina ed invero decisamente stupefacente pare essere il tasso di credulità dei nostri connazionali, inossidabile a qualsiasi disillusione passata. Per usare una immagine stereotipata ma che rende bene il comun sentire, verrebbe da dire: “sparala più grossa che puoi, così aumentano le probabilità di cogliere il bersaglio”. In questi giorni è stato da più parti riesumato un vecchio cavallo di razza ( di quale, non è dato sapere); la c.d. flat tax. Ma di cosa si tratta? Chi conserva solo un minimo di memoria storica certamente ricorderà che se ne parlava già nel 1994, quando il tema fu introdotto dall’allora aspirante Presidente del Consiglio e costituiva uno dei punti forti del suo programma elettorale (aliquota unica del 33%). Con ogni probabilità rappresentò anche uno dei motivi, se non il principale, della sua vittoria. La questione è tornata d’attualità dopo le votazioni del 2018. Nel patto di Governo siglato dai due partiti che poi hanno dato vita alla colazione definita giallo-verde, fra i punti programmatici era previsto il passaggio ad un regime Irpef di “quasi flat tax”, con la presenza di due sole aliquote rispettivamente del 15 e del 20%. Agli osservatori più attenti certo non sfuggirà un particolare un po’ paradossale: esiste una relazione inversa, la cui spiegazione sfugge anche alle menti più illuminate, fra il quantum delle proposte avanzate nel corso degli anni ed il peggioramento dei nostri Conti pubblici. Da modesto studioso di Economia, provo la sensazione che molti dei nostri politici siano affetti da una patologia che si potrebbe definire “lafferismo acritico” (da Arthur Laffer, fra i teorici della Supply Side Economics), o ne abbiano mal digerito gli scritti. Detto questo, qual è il fondamento teorico fatto proprio dai sostenitori della “tassa piatta”? Secondo costoro essa contribuirebbe ad abbassare l’evasione fiscale in base al principio che, se si paga di meno, verosimilmente la base imponibile (ovverosia il numero di contribuenti propensi a pagare le imposte) si amplierebbe. Insomma, una sorta di “paghiamo meno, paghiamo tutti”. Prima di entrare nel dettaglio della questione, mi sia consentito di porre una domanda. Per quale motivo i “tassa piattisti”, quando ne hanno avuto la possibilità in forza di numeri parlamentari più che sufficienti, non hanno mai portato all’attenzione delle Aule un progetto compiuto che andasse in questa direzione? Forse perché questo argomento, al pari di altri usati in campagna elettorale, è un ottimo specchietto per le allodole (leggasi elettori creduloni), le quali alla fine, vista la loro natura, non possono che venire uccellate? Invero, una rapida disamina dei sistemi fiscali vigenti nei Paesi dell’Unione Europea e, più in generale, in tutte le Nazioni in cui esiste un’economia basata sul libero mercato, ci fornisce una risposta che non ammette repliche: la flat tax così come disegnata dai nostri politici lungimiranti non viene adottata da nessuno o quasi. Delle due l’una: o noi abbiamo dei geni incompresi in Scienza delle Finanze, oppure in tutti gli altri Stati si è capito che probabilmente non funziona. O perlomeno, a prescindere da una questione fondamentale di equità sociale che di seguito approfondiremo, non è funzionale per il raggiungimento degli obiettivi dichiarati, il primo dei quali, come dianzi ricordato, consiste nella riduzione dell’enorme evasione fiscale. Propongo una semplice riflessione, sul cui merito ogni lettore è libero di proporre le sue personali considerazioni. Mi sfugge il motivo in forza del quale un evasore, totale o parziale poco importa, dovrebbe ravvedersi sulla via di Damasco della onestà tributaria in presenza di qualche punto percentuale in meno di aliquota. Una qualche forma di resipiscenza civica dopo anni di latitanza dall’Agenzia delle Entrate ? Con tutta la fiducia che posso riporre nel ravvedimento dell’animo umano, trovo questa aspettativa quantomeno improbabile. Dicevo poco sopra che pochissimi Stati adottano la flat tax. Uno di questi è la Russia, in cui vige un’aliquota fissa del 13%, ma aldilà di qualsiasi altra considerazione di tipo politico e sociale, basta il dato sull’evasione fiscale per comprendere come i presupposti da cui partono i nostri “tasso piattisti” siano destituiti di ogni fondamento. Il FMI stima che, lungi dall’incrementare la base imponibile, nel regime putiniano l’evasione sia pari all’80% del PIL. Ad Ovest, solo in Olanda è stato presentato un progetto di riforma con questa ipotesi; peccato che in esso si parlasse di una imposizione secca del 40%. Ma diamo per scontato, anche se nessuno ha chiarito in modo definitivo ed intellegibile come si riuscirebbe ad ampliare la platea dei contribuenti, che questo miracolo italiano effettivamente avvenga. L’unica cosa assodata, sulla quale pare concordino tutti i proponenti, è che nel primo anno, per reperire la mole di risorse necessarie, sarebbe necessario attuare un maxi-condono, la famosa “pace fiscale”; in pratica, la rottamazione parziale ed in qualche caso totale dei debiti pregressi dei cittadini nei confronti dello Stato. Ma anche qui, lasciamo sbollire l’ira dei contribuenti onesti e andiamo oltre. Negli anni successivi quanto costerebbe all’Italia tutta l’operazione? Ogni persona di buon senso comprende che la valutazione prudenziale dell’impatto economico sui Conti pubblici di questa riforma costituisce presupposto inderogabile per certificarne la fattibilità. Fonti terze, quindi Uffici Studi del tutto indipendenti da ogni forza politica, stimano il fabbisogno necessario compreso fra un minimo di 30 ed un massimo di 60 miliardi di euro, a seconda dell’aliquota applicata e delle voci in detrazione/deduzione nella dichiarazione dei Redditi che verrebbero tolte o limitate (le famose tax expenditures). Immagino che chi ne beneficia, cioè tutti, non saranno molto contenti di vedersi ridotte alcune spese deducibili, ad es. quelle mediche, quelle per i farmaci, gli interessi sui mutui, le rette scolastiche, alcune tipologie di polizze assicurative, etc. Supponiamo che, nonostante l’insorgere di queste corpose e diffuse proteste, alla fine si riesca a varare il provvedimento rimanendo all’interno della soglia minore del fabbisogno, quindi i 30 miliardi di euro. Conditio sine qua non derogabile allo scopo di arrivare alla sua approvazione senza scossoni per il Bilancio pubblico è solo quella di indicare in via preventiva le risorse a copertura necessarie a finanziarlo. In pratica, dove si vanno a prendere i quattrini, escludendo ovviamente nuove imposte o scostamenti sul deficit, che i mercati ci farebbero pagare salato con un aumento impetuoso dello spread? A tale proposito, al momento nulla di certo e definitivo viene detto ed ho la netta sensazione che tale vaghezza regnerà sovrana fino al 26 settembre, ma verosimilmente anche dopo. Da ultimo, fatta la tara a tutte le dichiarazioni che magnificano gli effetti della flat tax sulle tasche dei cittadini, chi ci guadagna e chi ci perde in caso di una sua approvazione? A tale proposito, il consensus della stragrande maggioranza degli economisti, quindi di chi i conti è in grado di farli sul serio, parla chiaro. Per tutti i lavoratori percettori di un reddito medio – basso, rispetto alla situazione attuale si materializzerebbe una perdita secca anche di notevoli dimensioni. Ad esempio, una persona con un reddito di 11 mila euro lordi l’anno dovrebbe pagare circa 1.800 euro di tasse in più, cioè il 200%. Chi guadagna 17.000 euro il 70%, chi incassa 23 mila euro il 29%. I vantaggi iniziano intorno ai 30 mila con un -22% e diventano consistenti man mano che il reddito aumenta: per chi ha più di 50 mila euro le tasse diminuiscono del 43%. Insomma, una politica di redistribuzione della ricchezza, attuata in questo caso dallo sceriffo di Nottingham sotto le mentite spoglie di Robin Hood. L’ultima versione del Bingo, con le classi meno abbienti nell’unico ruolo di spettatori, ovviamente paganti.