Nel corso degli anni, l’indebitamento di Evergrande ha assunto proporzioni allarmanti. Oggi è stimato attorno ai 300 miliardi di dollari

Di: Andrea Panziera

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Penso che quasi tutti i lettori abbiano sentito parlare di Evergrande e ne conoscano a grandi linee la vicenda. Mi sia peraltro consentito un breve excursus per coloro i quali ne ignorano completamente l’esistenza e le recenti vicissitudini. In breve, si tratta di un colosso immobiliare, il secondo per importanza nella Repubblica Popolare Cinese, che nel corso degli anni ha diversificato la sua attività investendo anche nel settore assicurativo, nell’alimentare, nei media ed addirittura nell’auto elettrica. Negli anni ’90 – pochi anni dopo la strage di piazza Tienanmen ed all’inizio della grande espansione economica promossa da Deng Xiaoping – il suo fondatore Xu Jiayin era un giovane imprenditore immobiliare brillante e ricco di iniziativa impegnato a soddisfare la domanda di nuove abitazioni proveniente dalla nascente middle class cinese. Nel 1996, a Guangzhou, diede vita una piccola impresa, Hengda poi ribattezzata Evergrande. Da allora la società ha registrato una crescita smisurata. Quando nell’ ottobre 2009 ha chiesto la quotazione a Hong Kong, ha raccolto con la sua IPO più di 720 milioni di dollari. Paradossalmente, ma neanche tanto se si analizza lo sviluppo degli eventi, i problemi di oggi nascono proprio nel 2009, come conseguenza indiretta della crisi finanziaria mondiale, cagionata dalla cartolarizzazione dei mutui subprime, con conseguente fallimento di Lehman Brothers. Di fronte al crollo della domanda estera, allo scopo di mantenere i suoi elevati ritmi di crescita, l’economia cinese aveva bisogno di puntare su un settore che potesse fungere da traino e questo è stato individuato nell’edilizia ad uso civile abitativo e nel comparto delle infrastrutture. Di conseguenza, la scelta è stata quella di elargire massicciamente credito alle aziende di costruzioni attraverso le banche statali poiché, seppur di proprietà privata, queste imprese erano funzionali agli obiettivi di politica economica di Pechino. I dati non prestano il fianco ad interpretazioni differenti: il settore immobiliare è stato per anni l’elemento propulsore per la crescita economica di Pechino. Secondo le stime di Fitch per molto tempo gli investimenti del comparto hanno rappresentato in media il 13,5% del Pil , tre volte il livello dell’economia Usa. Negli ultimi anni però Pechino ha deciso di cambiare rotta, riducendo l’enorme leva finanziaria concessa in passato al settore delle costruzioni. Il presidente Xi Jinping ha lanciato una campagna per moderare la corsa al “real estate” affermando che “la casa è per vivere, non per la speculazione”. Sono quindi stati introdotti tre vincoli di natura finanziaria a cui le aziende immobiliari si devono obbligatoriamente attenere: un tetto del 70% delle passività rispetto alle attività, un limite del 100% sul debito in rapporto al patrimonio netto e una dotazione di fondi cash in misura sufficiente per coprire l’indebitamento a breve termine. Limiti che hanno aggravato ancora di più la crisi di liquidità in cui da tempo versa Evergrande. Alcune cifre contribuiscono ad inquadrare meglio la dimensione del problema. Nel 2020 le entrate consolidate del gruppo sono state pari a 507,2 miliardi di yuan (66,8 miliardi di euro). I dipendenti sono oltre 200 mila, ma con l’indotto il loro numero sfiora i 4 milioni. Nel corso degli anni l’indebitamento ha assunto proporzioni invero allarmanti: oggi è stimato attorno ai 300 miliardi di dollari, più o meno il 2% del PIL cinese, con gli oneri finanziari che incidono in termini pesantissimi sulla sostenibilità dei conti del gruppo. Cosa succederà ora ? Se lo chiedono i Mercati, che nei giorni scorsi hanno dato segnali di grande nervosismo, al momento parzialmente rientrato dopo che è stata regolarmente pagata una tranche di interessi su un titolo obbligazionario. Ma la situazione tiene in allarme oltre 80.000 piccoli risparmiatori che hanno investito i loro quattrini nella società, i fornitori, che temono di perdere i loro crediti, 250 tra banche ed entità finanziarie cinesi che hanno concesso prestiti al gruppo. Altrettanto dicasi per un nutrito drappello di investitori stranieri, visto che a rischio ci sono 17 miliardi di dollari in debiti verso istituzioni estere. E possibile un affaire “Lehman Brothers bis” in salsa pechinese ? Secondo la capo-economista dell’Ocse Laurence Boone, “l’impatto sarà piuttosto limitato eccetto ovviamente per alcune particolari società”. “Pensiamo che le autorità cinesi abbiano la capacità di bilancio e monetaria per ammortizzare lo shock”. Il consensus di gran parte degli analisti è allineato su questa opinione: la paura di ripercussioni sistemiche va, allo stato attuale delle notizie, ridimensionata. In realtà, se ciò fosse possibile senza subire le conseguenze di un danno di immagine di portata planetaria, il Partito Comunista non avrebbe nessuna remora ad affossare Evergrande ed il suo management, additandolo al pubblico ludibrio. La recente vicenda del silenziamento di Jack Ma, che ha osato criticare pubblicamente alcune decisioni politiche, ne è l’esempio. Una delle possibilità, verosimilmente la più probabile, appare quella dello smembramento del gruppo, i cui asset verranno riallocati ad imprese di stretta osservanza, in modo da limitare l’impatto sul tessuto produttivo, sul sistema finanziario e, forse, sui livelli occupazionali. Di certo, il destino del patron di Evergrande Xu Jiayin, a dispetto delle pubbliche lodi ricevute nel passato da molti esponenti politici di primo piano, appare segnato. L’oblio silenzioso è la migliore delle sorti a cui possa aspirare e dubito che si sentirà ancora parlare di lui.