“È più facile cambiare moglie che squadra”. Forse è vero. Ma non ho mai sopportato quella categoria di tifosi “full time” che trasforma il calcio in una fede acritica
Di: Andrea Panziera
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Una premessa. Sono tifoso interista da una vita. La prima partita l’ho vista allo stadio di S. Siro con mio padre, all’età di 6 anni. Erano i tempi della Grande Inter; quella, per intenderci, di Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso.
Ho gioito per le vittorie nerazzurre e mi sono rattristato per le sconfitte. Anche nei momenti più negativi, non ho mai smesso di sostenere la mia squadra, nella consapevolezza o nella speranza che prima o poi sarebbe tornata a primeggiare. Col Triplete questo auspicio si è avverato e la Beneamata ha realizzato un’impresa che perlomeno a livello nazionale rimane finora ineguagliata.
Per molti versi condivido il pensiero del mio amico Giuseppe, noto avvocato in quel di Legnano e, ahimè, accanito supporter rossonero: “è più facile cambiare moglie che squadra”. Una cosa però non ho mai sopportato; quella categoria di tifosi “full time” la cui unica ragione di vita è il calcio, trasformato in fede acritica, irrazionale, integralista, sproloquiale e non di rado violenta, in tutte le possibili declinazioni del termine. Persone che non di rado menano la moglie se tornano dallo stadio arrabbiati e magari festeggiano la vittoria facendole le corna.
Questi talebani del tifo, organizzato o no, nel primo caso spesso con connotati non proprio adamantini, nelle loro incursioni mass mediatiche o nelle manifestazioni pubbliche di massa, abusano di espressioni che dovrebbero essere bandite dal mondo dello sport. Non mi riferisco solo agli insulti gratuiti, velenosi e canaglieschi, del tutto fuori contesto se parliamo di calcio (ammesso che ne esista uno con essi compatibile).
Penso, ad esempio, al reiterato utilizzo della parola “traditore”, che quasi immancabilmente affibbiano ai giocatori dopo un cambio di casacca a loro sgradito. Emblematici, a questo proposito, sono i recenti casi di Lukaku e Donnarumma, rei di aver accettato una proposta economica conveniente e per questo trattati da mercenari prezzolati. Sono convinto che, al loro posto, gli inflessibili lapidatori se ne sarebbero andati anche per molto meno; ma ergersi a paladini di una presunta morale pedatoria, incluso il sacro attaccamento ai colori sociali, in opposizione alle tentazioni bieco – pecuniarie del mercato probabilmente li fa sentire meglio.
Che la cessione del bomber belga abbia contribuito in modo rilevante a risanare un bilancio nerazzurro dagli equilibri molto precari è per loro questione del tutto marginale. Che il portiere della nostra Nazionale avesse il sacrosanto diritto di giocare in un top team, assieme ai migliori calciatori del mondo, pure. Per questi pensatori minimi ( chiedo venia ai filosofi Vattimo e Rovatti; ogni riferimento al loro Pensiero Debole è del tutto involontario) l’unica cosa che conta nella vita è sventolare il vessillo di una fantomatica purezza calcistica, i cui valori nascono e muoiono all’interno di un rettangolo di gioco lungo poco più di 100 metri e largo circa 60. Come custodi di questo Sacro Graal pallonaro mi sembrano invero poco credibili.