Ed ecco riproporsi il dibattito sull’esistenza – o meno – di qualche forma di morale nel sistema di produzione capitalistico

Di: Andrea Panziera

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Il dibattito sull’esistenza, o meno, di una qualche forma di morale nel sistema di produzione capitalistico ogni tanto si ripropone, invero soprattutto nei consessi culturali e nelle discussioni accademiche, mentre il quotidiano dibattito della politica ed il comune sentire dei cittadini sembra non avere questo tema fra le sue priorità.

Di solito, chi ne parla prende spunto dal pensiero weberiano che, come noto, associa l’etica calvinista protestante allo spirito intrinseco del capitalismo. La postulata esistenza di un ordine naturale, creato da un Dio trascendente che ha riservato ad ognuno di noi un destino che nessuna delle nostre opere può modificare, spingerebbe così l’uomo a ricercare la sua realizzazione terrena nell’ottenimento del successo, in primis quello economico, come conferma della propria elezione divina.

Questo impulso all’azione individuale viene in realtà accompagnato dal monito a non godere oltre misura dei beni materiali, il che implicitamente si traduce nella conseguenza di non consumare la maggior parte del profitto ottenuto bensì di reinvestirlo per permettere il continuo sviluppo dei mezzi di produzione. Nel concreto, soprattutto in quello che a ragione viene considerato il modello realizzato di sistema economico capitalistico permeato di dottrina calvinista, questa componente “etica” trova la sua manifestazione pratica nelle fondazioni filantropiche , basate sul principio del “give back”. Se andiamo però a leggere i numeri, si può misurare in molti casi la distanza fra il suddetto principio e la sua attuazione tangibile. Molto meno del 10% delle persone più ricche d’America destina almeno un quinto del loro patrimonio a cause benefiche, con la encomiabile eccezione di Bill Gates e consorte , di George Soros, di Michael Bloomberg e pochi altri. Altri imprenditori assai noti per le loro disponibilità finanziarie, come Bezos, Musk, Zuckerberg e l’ex presidente USA Donald Trump, sono assai meno munifici.

L’istituto della fondazione filantropica è meno diffuso nella cultura imprenditoriale europea ed italiana, anche se non completamente assente. Le motivazioni probabilmente sono più d’una e sembrano variare a seconda delle Nazioni. In particolare, nel nostro Paese le figure dell’imprenditore illuminato nel senso più estensivo del termine, sia storiche che attuali, non mancano ma non sempre sono riconducibili ai medesimi ambiti culturali.

Adriano Olivetti, forse il più noto fra tutti, era figlio di Camillo, di religione ebraica, e di Luisa Revel, di confessione valdese. Il suo riferimento valoriale era il Movimento politico “Giustizia e Libertà”, permeato degli ideali del liberalsocialismo. Seppe coniugare le sue capacità manageriali, che portarono la Olivetti ad essere la prima azienda al mondo nel settore dei prodotti per ufficio, con una instancabile sperimentazione volta ad armonizzare lo sviluppo industriale con l’affermazione dei diritti dell’individuo e con la democrazia partecipativa, dentro e fuori la fabbrica.

Olivetti riteneva che non esistesse contrapposizione fra solidarietà e profitto, che l’efficienza nella fabbrica potesse scaturire anche e soprattutto dalla condizione e dall’ambiente di lavoro. I suoi operai godevano di condizioni migliori rispetto a quelle delle altre grandi fabbriche italiane. Ricevevano salari più alti a parità di mansioni e le abitazioni, gli asili e le scuole si trovavano in prossimità del luogo di lavoro, in modo da diminuire i disagi delle famiglie.

Anche al loro interno le fabbriche della Olivetti avevano peculiarità del tutto originali: durante le pause i dipendenti potevano usufruire di biblioteche, partecipare a manifestazioni culturali e non esisteva una divisione netta tra il management e gli operai, in modo che conoscenze e competenze fossero condivise fra tutti. Programmi simili si possono ritrovare anche ai giorni nostri, anche e soprattutto in alcuni esponenti di quell’imprenditoria di matrice cattolica che ha fatto propria l’idea del Bene Comune come driver dello sviluppo socio – economico.

E’ sì vero che i contenuti di questo principio non sono rigidamente ancorati a parametri immutabili ma vengono plasmati sull’evoluzione dei tempi e dei luoghi; ma l’etica cattolica nella sua fattiva applicazione non può fungere in alcun modo da supporto a metodi di produzione che nei fatti, aldilà delle enunciazioni di facciata, contraddice questa prospettiva. Cosa significa, ed in cosa si sostanzia, questa affermazione?

In una semplice ed immediata considerazione: in ogni sistema economico, ogni forma di incentivazione a supporto del processo produttivo genererà risultati tanto più positivi per la collettività quanto maggiore sarà il modo e la qualità con cui gli operatori percepiscono, valutano e reagiscono a tali incentivi. E questa risposta farà la differenza. In una parola, sono i Valori etici, la loro presenza ed il loro peso nelle decisioni imprenditoriali, a giocare un ruolo decisivo nel destino di una collettività. Chi da quasi 50 anni ha capito e fatto propri questi concetti è Silvano Pedrollo, fondatore dell’omonimo gruppo di San Bonifacio.

La sua azienda è fra i leader mondiali della produzione di elettropompe, che esporta in tutti i 5 continenti, con fatturati in costante crescita. Alle consuete parole d’ordine di ogni imprenditore di successo, egli ne ha aggiunta un’altra più articolata, che costituisce la scaturigine dei numerosi riconoscimenti accademici ed istituzionali: l’acqua è la vera ricchezza dell’umanità e tutti devono poterne disporre in quantità e qualità tale da garantire a se stessi ed alle proprie famiglie una esistenza dignitosa. Basta probabilmente questa convinzione, a cui sono sempre seguiti comportamenti di politica e strategia industriale coerenti e conseguenti, per inquadrare nella giusta luce la dimensione di una persona il cui portato di moralità, non millantata ma praticata, è sempre andato di pari passo con il poderoso sviluppo della sua attività.

Non penso che l’elencazione delle sue onorificenze attribuisca maggior peso al suo lavoro. Una delle virtù di chi è realmente capace è l’umiltà e nelle sue non molte dichiarazioni pubbliche Silvano Pedrollo fa trasparire chiaramente questa sua dote. Assieme ad un’altra, che è la responsabilità, intesa come dovere sociale nei confronti di coloro i quali dipendono, direttamente o indirettamente, dall’operato della sua creatura, oggi e in un futuro che ad ogni evidenza si palesa sempre più ricco di incognite.

In quest’ottica si colloca la decisione di privilegiare gli investimenti in R&S come prima destinazione dei profitti, nonché quella di dare continuità al suo impegno di garantire questa risorsa indispensabile per le generazioni a venire coinvolgendo nella sua visione di business i figli e, presumibilmente fra qualche anno, i nipoti. Per il nostro giornale è motivo di orgoglio averlo insignito nel 2014 del Premio di imprenditore veronese dell’anno; l’auspicio è che il suo esempio eserciti un effetto moltiplicativo su una categoria non di rado piuttosto refrattaria a temi come etica e solidarietà.

Esistono, e sono concretamente praticati, anche valori imprenditoriali di economia civile oltre il mero, seppur importante, ottenimento del profitto. Silvano Pedrollo ed altri come lui ne rappresentano chiara ed incontrovertibile testimonianza.