La prima intervista in presenza e in Arena a Diego Matheuz, direttore venezuelano di “Aida” in occasione del 98° Opera Festival

Intervista di: Roberto Tirapelle

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Nell’ambito del 98° Opera Festival, le recite di Aida già trascorse – 26 giugno e 1° luglio – e quelle prossime – 9, 15 e 21 luglio – saranno dirette dal Maestro Diego Matheuz, appartenente a quella giovane generazione di musicisti emergenti. Per la prima volta a Verona, abbiamo incontrato il Maestro nel camerino dell’Arena.

L’intervista a Diego Matheuz

Maestro, un doppio debutto: a Verona, in Arena, per dirigere Aida!

“Poter debuttare con Aida nel tempio dell’Aida è un grandissimo onore. Avere questa possibilità, in questo periodo così difficile per tutti che comincia ad aprirsi, e dare un po’ di bellezza e speranza con Aida è una grande gioia. Per un direttore giovane come me, poter debuttare con Aida in Arena è il massimo”.

Come si è trovato con l’Orchestra?

“Con l’orchestra abbiamo avuto pochissime prove, ma è molto, molto buona. Comunque, tutti, orchestra, coro, cantanti, sono molto collaborativi e aperti. Anzi, direi che sono più bravi di me. Del resto, conoscono Aida più di ogni altro teatro. Rapporti umani meravigliosi”.

Ha avuto difficoltà a seguire i cantanti e il coro in un palcoscenico così grande?

“Forse qualche lievissimo problema, ma è un cast di grande levatura: sono così bravi che sanno benissimo cosa fare e come gestire le situazioni”.

Ha cominciato la sua carriera musicale suonando il violino, poi è arrivata la direzione d’orchestra: ci racconta i vari passaggi?

“Ho cominciato col violoncello. Poi, sono passato al violino e ho continuato a suonare il violino. Sono stato spalla per molti anni, poi ho cominciato a dirigere l’orchestra e ho dovuto smettere di suonare per problemi di tempo. Avevo cominciato a viaggiare tantissimo e non potevo rimanere in orchestra, anche se mi piaceva moltissimo, perché ho imparato molto. Suonare in orchestra è importante anche per la carriera di un direttore, perché capisce meglio le varie parti”.

“Tutta la mia educazione è stata ne ‘El Sistema’ (modello didattico musicale rivoluzionario venezuelano, ndr) e continuo a farne parte: sono direttore di una delle orchestre. Purtroppo, da quando è cominciata la pandemia Covid-19, e la situazione politica del Paese si è complicata, non ho più potuto entrare in Venezuela. Sono due anni che non torno”.

Maestro, ci racconta della sua esperienza alla Fenice di Venezia?

“È stata la più grande scuola di tutto: di vita, di musica… Ho imparato tantissimo. Una delle più importanti esperienze, anche se molto difficile per me. A quel tempo, avevo 26-27 anni: arriva un ragazzino del terzo mondo a dirigere l’opera dove è nata a dei musicisti italiani (sic). Sono stato quattro anni molto impegnativi, ma è stato bellissimo. Ho trovato una grande orchestra, due sovrintendenti bravissimi (prima Chiarot, poi Ortombina) e siamo diventati amici”.

Nel periodo della Fenice, con i concerti di Capodanno, ha avuto anche un successo mediatico mondiale?

“Sì, ma non è tanto la diffusione televisiva quello che conta: è il resto. Torno sempre a Venezia, almeno una volta l’anno. Nella città più bella del mondo, cosa si può avere di più?”.

In che modo l’hanno plasmata due musicisti come Antonio Abreu e Claudio Abbado?

“Sono i miei due padri musicali. Fin da bambino, Abreu mi dava lezione. È stato il mio maestro all’inizio della direzione d’orchestra. Poi, c’è stato Abbado, che mi ha portato in giro per l’Europa come violinista della sua orchestra Mozart. Mi ha portato in giro per l’Italia, Ferrara, Parma, Reggio Emilia, Modena; e, poi, anche con la Chamber, con i Berliner, con Luzern Festival. È stata una bellissima opportunità, per me, lavorare con Claudio. Siamo diventati grandi amici e lui è presente in tutto quello che faccio”.

Come ha conosciuto Claudio Abbado?

“Ho conosciuto Abbado ne ‘El Sistema’, perché nei mesi invernali, Gennaio e Febbraio, scappava dall’Italia e veniva in Venezuela, in quanto in quel periodo si sta benissimo. In Venezuela ha fatto molti concerti, per 6-7 anni di seguito. Poi ha scoperto che io facevo direzione e, in un prova, nell’ultimo tempo della Settima di Beethoven, mi ha detto: ‘Vai e dirigi’. E così è nata la nostra sinergia. Da lì, è cambiato tutto”.

Ci può parlare del progetto Mach?

“Ho fondato il progetto Mach (nell’ambito del Festival Musica sull’acqua di Colico, ndr) con un mio collega violinista, Francesco Senese, che da 16 anni ha un Festival a Colico. Lo scopo del progetto è quello di invitare le prime parti delle grandi orchestre internazionali, e con gli studenti partecipanti, che non devono pagare assolutamente niente, facciamo lezione di musica da camera individuali. È il quarto anno. Facciamo tre-quattro concerti in alcune località del lago di Como“.

Questi importanti musicisti sono stati disponibili a venire a insegnare e a suonare?

“Sì, perché il progetto è pensato come una grande famiglia. Sono musicisti che conosco da molti anni e vengono molto volentieri”.

Si potrebbe pensare di allargarlo anche in altre Regioni italiane?

“Certo, è l’idea del progetto: espandere concretamente la divulgazione della musica. Speriamo di poter sviluppare questa idea, anche se, attualmente, il momento è difficile”.

Una ultima domanda dalla collega dell’Ufficio stampa: quale altra opera le piacerebbe dirigere a breve?

“Ho studiato tantissimo Carmen, perché era in programma al Metropolitan, ma tutto si è fermato con la pandemia. L’ho veramente studiata tanto”.

Sarà un suggerimento che gireremo alla Sovrintendente dell’Arena.

Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Fondazione Arena