Mario Corso, l’emblema della genialità, l’emblema del riscatto, la risposta a un “bauscismo” a volte venato da tratti di presunta e ostentata superiorità

Di: Andrea Panziera

LEGGI ANCHE: Hellas, bentornato: 2-1 al Cagliari

Tutti i tifosi di una squadra di calcio ricordano quando e come è nata la loro passione per quei colori. Tutti ricorderanno perché si è scelto di diventare juventini piuttosto che granata, romanisti piuttosto che laziali, milanisti anziché interisti.

Benché il ruolo del genitore come influencer non sia stato quasi mai secondario, conosco situazioni in cui questa consuetudine viene smentita. Anche e soprattutto nei casi in cui marito e moglie tifano per squadre differenti. Lo confesso, io faccio parte della prima categoria, quella dei figli che hanno seguito l’esempio dei genitori. Sono diventato un fan nerazzurro in tenera età, essendo andato a San Siro la prima volta più o meno a sei anni.

Ricordo vividamente i grandi e per me quasi inaccessibili gradoni di cemento dei popolari, la cui altezza superava di gran lunga le mie gambe. E altrettanto bene ricordo la fatica per arrivarvi, percorrendo il lungo tragitto dell’anello esterno a spirale. Ogni domenica, lo stadio era pieno e nelle partite importanti questo accadeva già un’ora prima dell’inizio. Allora, la pubblicità veniva sparata a tutto volume dagli altoparlanti prima di comunicare le formazioni: “Bulova Acutron, l’orologio dell’era spaziale e Stock 84, il liquore che sublima la felicità in caso di vittoria o ti consola in caso di sconfitta”.

Come spesso capita ai bambini, ho individuato dopo pochi minuti quello che negli anni a venire sarebbe diventato il mio idolo. All’epoca, un giovane ragazzo, un ventenne precocemente stempiato, che si distingueva fra tutti gli altri calciatori perché giocava con i calzettoni arrotolati sulle caviglie. Pieno stile Sivori, insomma, di cui si dice fosse un grande ammiratore. Un ragazzo all’apparenza un po’ indolente, ma che sembrava accarezzare dolcemente il pallone, facendogli assumere traiettorie incredibili e quasi paracadutandolo sui piedi dei compagni a decine di metri di distanza.

Mario Corso

Mario Corso

Quel ragazzo poco più che ventenne, con il numero 11 sulla maglia, si chiamava Mario Corso, detto Mariolino. Mio padre mi aveva spesso parlato di lui, veronese di San Michele Extra, perché l’anno in cui era arrivato all’Inter era il medesimo dell’approdo dei miei genitori a Milano in cerca di fortuna. Era il 1957 e avevo appena due anni, ancora troppo piccolo per comprendere, aldilà delle qualità sportive, la recondita scaturigine della sua ammirazione per Corso. Chi arrivava a Milano dalla campagna non di rado veniva considerato un po’ come il villico che lascia il contado, gran lavoratore ma a volte sprovveduto. Addirittura qualcuno per i veneti aveva coniato la terminologia di terroni del Nord.

L’emblema del riscatto

Mario Corso rappresentava la genialità. Era l’autore della giocata imprevedibile e fulminea, quella che disorienta chi si crede superiore per prestanza fisica e atletica. Era colui che trasforma una semplice punizione da una posizione defilata in un gol da urlo. Penso che per molti veronesi-milanesi sia stato l’emblema del riscatto, la risposta a un “bauscismo” a volte venato da tratti di presunta e ostentata superiorità.

Come quasi tutti i grandi campioni ha avuto estimatori estasiati e critici anche severi. Non aveva la vis pugnandi e la tenacia di Mazzola o le eleganti movenze e il carisma di Rivera, tantomeno le loro qualità dialettiche; era piuttosto introverso, schivo, di poche parole, peraltro pronunciate con una voce tutto fuorché roboante. Nondimeno, era in grado di cambiare le sorti di incontro all’improvviso, con una genialata che per gli avversari quasi sempre significava il colpo del ko. Giocava praticamente con un piede solo, il sinistro; l’altro gli serviva solo per correre o trotterellare per il campo, magari all’ombra, ma quel sinistro per molti si rivelava un’arma mortifera.

Il piede sinistro di Dio

Dopo una partita valida per le qualificazioni ai mondiali contro la nazionale israeliana, alla quale aveva appena segnato due gol, l’allenatore ebraico, abbattuto ma ammirato, lo definì “il piede sinistro di Dio”. Un appellativo destinato a rimanergli appiccicato addosso per tutta la carriera. Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelè, certo non l’ultimo dei competenti, a precisa domanda rispose che lo giudicava il miglior esponente del nostro calcio.

Per Corso, aldilà di tutto, parla il palmares: ai successi della Grande Inter ha contribuito in modo decisivo, con gol entrati nella leggenda. Ricordo che un giorno di primavera, nella seconda metà degli anni ’60, mio padre mi raccontò di averlo casualmente incontrato nei pressi del negozio della moglie in Piazza De Angeli. Si era fermato a parlare con lui qualche minuto, commentando la partita della domenica precedente con qualche battuta in dialetto veronese. Da allora lo aveva rivisto sempre in quel luogo in altre due-tre occasioni e ogni volta la sera mi riportava i suoi commenti sul mondo del calcio, lapidari e mai banali. Mi piace ricordarlo e immaginarlo così, mentre assieme a mio padre, Picchi, Facchetti e tutti gli altri campioni ora scomparsi rievoca in allegria i trionfi di un’epoca sportiva tinta di nerazzurro per molti versi irripetibile.