Una vita spesa ad ascoltare le persone, ad aiutarle nella comprensione di sé e nella soluzione dei loro problemi più profondi: ecco Silvia Monauni
Di: Samuela Piccoli
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Chi è Silvia Monauni? Brillante al liceo e amante fin dai primi anni di scuola delle materie filosofiche, le è sempre piaciuto ascoltare i racconti delle amiche. Soprattutto, le è sempre piaciuto sostenerle nelle difficoltà, quando esternavano problemi sentimentali o familiari. La scelta, quindi, non poteva che cadere sulla Facoltà di psicologia, per dar seguito alle sue già manifeste predilezioni.
Silvia Monauni: la sua storia
Silvia nasce a Verona l’11 dicembre del 1973. Frequenta negli anni dell’adolescenza il liceo linguistico “Alle Stimate”, dove si diploma con il massimo dei voti. Nell’estate del 1992, conosce il suo attuale marito, residente però a Reggio Emilia, e l’anno successivo si iscrive alla Facoltà di Psicologia presso l’Università degli Studi di Padova. Al termine del corso di studi, si laurea con la votazione di 110 e lode. Si trasferisce poi a Reggio, dove effettua il tirocinio presso il Sert, servizio dipendenze patologiche della città.
Si sposa con Emanuele Gandolfi e, dopo la nascita della loro primogenita, si iscrive alla specializzazione in Psicoterapia presso il Centro di Psicologia ed Analisi Transazionale di Milano, conseguita nel 2006. Partecipa negli anni a molti eventi formativi sui disturbi borderline, sul tema “migrazione” legata al carcere e sui disturbi della personalità.
La ricerca psicologica e psichiatrica
Dal 2011 al 2013 frequenta un Master Biennale in psichiatria nei contesti penitenziari organizzato dalla Regione Emilia Romagna. Dal 2009 al 2016 lavora come dipendente del Dipartimento di Salute mentale e Dipendenze Patologiche presso la Casa Circondariale di Reggio Emilia. Svolge un servizio psicologico rivolto ai detenuti nella valutazione del rischio suicidario e colloqui di sostegno e di psicoterapia individuali.
Svolge attività di psicologica di gruppo con focus sul tema della migrazione e sulla conoscenza dell’”altro diverso da me” per migliorare la convivenza in istituto, conducendo con un collega il gruppo “Caino” sul tema della violenza e delle condotte aggressive. In questi anni, pubblica insieme a Daniele Vasari alcuni articoli sulla rivista “Psicologia Contemporanea” e altri testi:
- Dialoghi dal mondo. I gruppi psicologici interetnici, “Psicologia Contemporanea”, marzo-aprile, 2014;
- La violenza di genere. Quale intervento?, “Psicologia Contemporanea”, settembre-ottobre 2014;
- Il gruppo Caino, in D. Vasari, A. Spada, Linguaggi e gesti della violenza, Publi & Stampa Edizioni, 2015;
- Caino, un’esperienza di gruppo in carcere, “Bollettino Ordine degli Psicologi dell’Emilia Romagna”, Bollettino n. 1, 2015.
Inoltre, ha partecipato a numerosi congressi come relatrice e dal 2014 tiene il corso di Psicologia clinica presso UNIMORE. Dal 2016 lavora come psicologa presso il Centro Salute Mentale di Reggio Emilia. Ha tre figli e vive attualmente a Reggio.
Quattro chiacchiere con Silvia
Abbiamo voluto fare una chiacchierata con Silvia per farci raccontare della sua esperienza come psicologa del carcere e per sapere cosa ne pensa di questa pandemia.
Com’è stato l’impatto con la realtà del carcere?
“L’impatto di una giovane psicologa all’interno di un regime carcerario, piuttosto chiuso e diffidente, è stato in principio abbastanza difficile. La polizia penitenziaria guardava con sospetto e fastidio chi rivolgeva parole gentili al detenuto, visto in quegli anni quasi esclusivamente come una persona colpevole e meritevole di punizione.
Nel corso del tempo, però, sono cresciuti la stima e il rispetto reciproco tra figure professionali diverse e si è creata una bella collaborazione tra operatori del sistema sanitario nazionale e quelli della Polizia Penitenziaria. Bere il caffè insieme alle macchinette in un clima di spensieratezza, esperienza impossibile i primi tempi, ha sancito definitivamente il passaggio del riconoscimento dell’altro non come nemico, ma come parte fondamentale di un lavoro professionale di squadra, in cui lo spazio di ascolto poteva affiancare e arricchire (non inficiare) il senso della pena detentiva”.
Quali bisogni esprimevano i detenuti venendo a colloquio?
“Come mandato professionale, incontravo una prima volta tutti i detenuti all’ingresso per valutare 1) le condizioni psichiche generali, 2) l’impatto emotivo dell’arresto, 3) la presenza di idee suicidarie e 4) per individuare eventuali problematiche psichiatriche o di dipendenza patologica meritevoli di una presa in carico dei Servizi territoriali.
Era offerta a tutti la disponibilità di un percorso psicologico di ‘accompagnamento’ alla detenzione come spazio di ascolto e sostegno, ma anche di possibile elaborazione di momenti traumatici di vita. Le persone che sceglievano di essere seguite erano solitamente quelle più fragili da un punto di vista psicologico, che mal tolleravano il regime detentivo. Vivevano con colpa e rimorso per il reato commesso e desideravano mettere in discussione alcuni aspetti del loro carattere”.
Cosa ti è rimasto di quel periodo? Cosa ha portato di nuovo nel tuo bagaglio di psicologia?
“Ho lavorato nel carcere di Reggio Emilia per circa 10 anni. Alcuni detenuti mostravano di avere un’identità deviante, in cui il reato commesso sembrava essere una scelta di vita e di affermazione di sé. Tuttavia, la maggior parte di loro raccontava storie dolorose, vite spezzate da percorsi migratori travagliati, costellate da traumi, da lutti prematuri o relazioni familiari violente, abbandoniche e, in generale, inadeguate.
Ho imparato a ‘stare nel dolore’, a empatizzare con le loro testimonianze, ad abbassare il livello di giudizio, a cogliere i significati possibili sottesi al reato commesso e, quando possibile, a guidarli in un percorso di crescita psichica e di cambiamento”.
Adesso che sei al CSM, quali sono i problemi dei pazienti?
“Dal 2016 lavoro al Centro di Salute Mentale, dove incontro pazienti con diagnosi psichiatriche molto differenti tra loro, in prevalenza quelle di stampo psicotico, caratterizzate da una perdita di contatto con la realtà, o disturbi di personalità costellati da stabili disequilibri nelle relazioni interpersonali. Oppure, nei casi più favorevoli, disturbi d’ansia o ‘semplici’ momenti di fatica legati a situazioni ambientali stressanti.
I bisogni posti nei colloqui sono tra i più vari, ma un aspetto che ritrovo in tutti è la sofferenza, legata a situazioni conflittuali nel presente, a una scarsa accettazione di sé, a una mancanza di senso o significato al fare quotidiano o a traumi nel passato. Una sofferenza che tormenta il paziente e non gli dà pace, unita di solito al desiderio e alla speranza di stare meglio.
La persona che chiede aiuto al servizio ha già fatto un primo importante passo nella direzione della cura, perché ha riconosciuto il disagio e lo ha ammesso dentro di sé, operazione per nulla banale o scontata”.
Come vivono l’esperienza del Covid-19?
“Ho osservato nei miei pazienti reazioni molto diverse al Covid-19. Alcuni, spaventati dalla malattia, si sono chiusi in casa e hanno chiesto di sostituire gli incontri in presenza con colloqui telefonici. Altri, invece, focalizzati sulle loro profonde angosce di vita, si mostrano totalmente impermeabili alla possibilità di ammalarsi, come a dire ‘cosa sarà mai il Covid, rispetto alla sofferenza che provo tutti i giorni della mia vita?’.
Altri ancora erano incredibilmente sollevati dalla condizione della pandemia. Sono le persone più ritirate socialmente, magari disoccupate, che vivevano con vergogna lo scarto rispetto agli altri. La situazione Covid viene vista come ciò che livella le differenze sociali: ‘anche gli altri non hanno lavoro’, ‘non sono più l’unico chiuso in casa’, ecc.”.
Come psicologa, cosa consigli ai lettori per affrontare al meglio questo periodo di limitazioni?
“Se ci si concentra solo sulle limitazioni, è facile provare risentimento e frustrazione. Un po’ come un ragazzo adolescente che scalpita alle regole imposte dai genitori in famiglia. È importante potersi mettere nei panni di chi le ha emanate così da poter ritrovare il senso e il significato delle stesse. È più facile convivere con una regola, quando la si comprende e la si considera assennata”.
Un’ultima riflessione
Sospendere il giudizio e ritrovare il senso delle cose: sono queste le parole che risuonano maggiormente nella testa dopo la chiacchierata con Silvia. Tutto passerà, come è sempre stato, ma il modo in cui decidiamo di vivere, durante questa pandemia, dipende solo da noi.