Nessuna tregua, nessuna proposta concreta: solo un palcoscenico per l’invasore e un passo indietro per la credibilità americana ed europea
Di: Andrea Panziera
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Sono stati scomodati vocaboli ed aggettivi iperbolici per un evento che, a consuntivo, si è rivelato una recita alquanto squallida. Il summit fra l’ ex piccolo teppista di San Pietroburgo, salito ai vertici dei Servizi Segreti russi con approdo finale al Cremlino ed il bolso palazzinaro pluri bancarottiere, divenuto di nuovo Presidente della più importante potenza economico-militare mondiale dopo una prima esperienza tutt’altro che brillante, passerà forse alla storia come il brutto replay della Conferenza di Monaco del 1938.
Questo secondo quadriennio a Washington di Trump promette invero di essere molto peggiore del primo e se i suoi primi sette mesi costituiscono un indizio, c’è solo da sperare di non svegliarsi a breve in un abisso senza via di scampo.
Il “rivoluzionario”, “storico”, “decisivo e risolutivo” meeting sul suolo americano fra lo scarsicrinito trotterellante piccolo zar e il volubile tycoon affetto da evidente goffaggine e instabilità umorale, già connotato da un clamoroso peccato originale, ossia l’assenza della più importante parte in causa, ha pienamente rispettato tutte le aspettative più negative: nuova e potente rilegittimazione internazionale concessa al criminale invasore, accolto in pompa magna a dispetto di tutte le dichiarazioni precedenti, pronunciate finanche il giorno prima; implicito ribaltamento della realtà fattuale di quanto accaduto dal 2022 ad oggi e palla gettata a quattro mani nel campo ucraino.
Riassumendo, un invito neanche tanto malcelato alla resa alle condizioni dettate da Mosca. La risibile conferenza stampa finale del summit, ammesso e non concesso che possa essere definito tale una sorta di rimpatriata fra vecchi sodali, che in comune hanno una visione del mondo basata sul disprezzo delle regole di civile convivenza e sulla negazione dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dei popoli, esclusi ovviamente i loro tornaconti personali, è stata lo specchio fedele di quanto accaduto nelle tre ore scarse di finta discussione: dodici minuti per parlare del nulla, un vuoto pneumatico di dichiarazioni, nessuna delle quali attinente al tema oggetto dell’incontro, con la negazione di qualsiasi domanda da parte della libera stampa.
Di “cessate il fuoco”, da sempre passo preliminare in tutte le trattative che mirano alla fine di un conflitto, non si è neanche udito un bisbiglio, perché con ogni probabilità nel corso del faccia a faccia questa eventualità non è stata, seppur minimamente, presa in considerazione.
Suonano invero ridicole ed offensive per il martoriato popolo ucraino le affermazioni di Putin e Trump, che dopo il colloquio hanno concordato nel parlare di grandi progressi, senza specificare in alcun modo in cosa consisterebbero. Peraltro, le successive specifiche del dittatore russo, non contraddetto dal Presidente USA, non prestano il fianco a equivoci o dubbi interpretativi: “A patto che Ucraina ed Europa non ostacolino gli sforzi per la pace”.
Tradotto, se la controparte non accetterà le nostre condizioni, ossia se Kiev non cederà i territori anche solo parzialmente occupati, la guerra continuerà. A questo malcelato diktat, mascherato da volontà di pace, ha fatto eco e tenuto bordone la precisazione di Trump: “Zelensky? Faccia un’intesa, la Russia è grande».
E l’Europa? Tenuta ai margini, anche grazie alle dichiarazioni ondivaghe, mutevoli ed ambigue del tycoon, pare al momento costretta a fare buon viso a cattivo gioco, ribadendo richieste ovvie di protezione per l’Ucraina che il vertice russo – americano ha già seppellito.
Non devono trarre in inganno le prese di posizione di queste ore, improntate alla prudenza ed alla necessità di garantire a Zelensky, o a chi per lui, libertà di scelta sulle concessioni da fare all’invasore per mettere fine alla guerra. La garanzia di protezione, magari attraverso l’estensione di qualche clausola prevista negli accordi di mutua assistenza fra i Paesi aderenti alla Nato, necessita poi dei mezzi per attuarla e allo stato su questo aspetto esistono fondati dubbi di fattibilità.
I prossimi giorni costituiranno la cartina da tornasole di questi propositi, ma l’ottimismo delle intenzioni cozza vistosamente con il pessimismo delle capacità, anche se la compattezza e la vicinanza dei leader europei nell’imminente incontro fra Zelensky e Trump induce ad un minimo di ottimismo.
Della piega e delle conclusioni del vertice in Alaska gioiranno enormemente le schiere di filo russi presenti in entrambi gli schieramenti politici nostrani, per i quali da sempre l’unico sinonimo accettabile della parola “pace” rimane quello di capitolazione da parte dell’aggredito. Anni fa si era ingenerato il sospetto che cotanta deferenza verso il sistema di potere e le ragioni del Cremlino fossero corroborati da qualche aiutino finanziario sotto traccia. Di certo sbaglierò, ma questo pensiero non cessa di ronzarmi nella testa come un moscone molesto e non mi abbandona, anche se non ho prove per dimostrarlo.
Peraltro, le vie dei paradisi fiscali offshore sono spesso impenetrabili, così come i codici dei conti bancari di beneficiari o prestanome. Le reazioni della stampa internazionale, esclusa ovviamente quelle esultanti di stretta fede moscovita in patria e all’estero sono state pressoché unanimi nei giudizi, a partire da quelle dei media americani.
Le più benevole parlano di una retromarcia di Trump e di un allineamento alle tesi di Putin, ponendo in evidenza la frattura che quasi inevitabilmente si creerà con gli storici alleati europei. Fallimento è il termine più ricorrente, con i giornali ucraini che all’unisono utilizzano l’aggettivo disgustoso. In tutta sincerità, a dispetto del clima di grande attesa evocato da più parti, non mi aspettavo nulla di meglio e di diverso, non avendo dato alcuna valenza alle dichiarazioni di Trump pronunciate nei giorni precedenti.
Per gli immemori, ricordo che l’obiettivo palesato solo ventiquattro ore prima del vertice, era il raggiungimento immediato della tregua, senza la quale non si sarebbe posta la parola fine alla strage quotidiana di civili inermi. Ebbene, questo proposito è del tutto svanito nell’intervista rilasciata all’emittente amica Fox news solo poche ore dopo la conclusione del vertice, prova ulteriore della completa e pericolosa inaffidabilità dello pseudo statista assiso alla Casa Bianca, le cui giravolte di opinione sono ormai più numerose e ravvicinate di un cambio d’abiti di Arturo Brachetti.
L’unico gesto commendevole in questa invero squallida sceneggiata, in attesa di valutare le reazioni delle Nazioni europee dopo l’imminente incontro con Trump di fianco a Zelensky, nella speranza che finalmente battano un colpo che salvi un briciolo della loro dignità, è la lettera scritta a mano dalla first lady Melania e consegnata a mano da suo marito a Putin.
Nella missiva, si chiedono notizie sulle sorti dei bambini ucraini deportati in Russia, che secondo stime attendibili potrebbero essere oltre 20.000, o addirittura molti di più, perorando il loro ritorno presso le famiglie d’origine. Ribattezzata dai media di Kiev “agente Trumpenko”, la moglie del presidente USA è l’unica figura che esce a testa alta da questa immonda sceneggiata e la scelta significativa di non accompagnare il marito al vertice costituisce sicuramente un segnale inequivocabile della distanza morale e umana fra i suoi valori e quelli del consorte.