Tra verità storica e memoria viva: oggi come allora, continuare a sostenere l’Ucraina rimane una scelta di civiltà
Di: Andrea Panziera
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L’8 marzo di tre anni fa veniva pubblicato su questa testata un mio articolo sull’invasione russa dell’Ucraina, il cui titolo era per l’appunto “Dalla parte giusta”.
Ora, come allora, non ho alcun dubbio su quale sia quella parte; anzi, più passa il tempo, più si rafforza la mia convinzione che l’aggressore non deve assolutamente vincere la guerra che ha scatenato, nonostante il diffuso sentimento di stanchezza apatica che in misura sempre crescente pervade fette non marginali della pubblica opinione occidentale.
Queste mie riflessioni scaturiscono e si alimentano dalle notizie quotidiane sulle efferatezze compiute dai missili e droni lanciati sulle città ucraine, che in buona parte dei casi colpiscono sistematicamente abitazioni e strutture civili al solo scopo di seminare morte e terrore fra i cittadini. Ma trovano un ulteriore rafforzamento dopo la notizia della scomparsa vicino a Sumy di Thomas D’Alba, un insegnante di musica di Legnano, che un anno fa aveva deciso di combattere per Kiev da foreign fighter.
Agli amici aveva chiesto il massimo riserbo anche se gli fosse successo qualcosa, accompagnando questo suo desiderio con un lascito morale a imperitura memoria “Sono stato in molte missioni all’estero e a volte mi chiedevo se fossi dalla parte giusta. In Ucraina non ho mai avuto questo dubbio, non potevo starmene a guardare quello che succedeva”.
Qualche imbecille nostrano ora dirà che lo ha fatto per i soldi: falso, i suoi colleghi insegnanti, che ben conoscevano i dettagli, anche economici, della sua scelta, garantiscono prove alla mano e senza tema di smentita che avrebbe guadagnato di più restando al suo posto di lavoro. Sembrerà strano, ma anche ai giorni nostri qualcuno è disposto a sacrificare la sua vita in nome di un ideale.
In realtà, non provo stupore per certe affermazioni, per le bassezze di certi commenti, per l’ignoranza dilagante sulle presunte cause del conflitto, su fantomatici torti e minacce che avrebbero indotto lo scarsi crinito nano sanguinario assiso al Cremlino a muovere guerra.
In un mondo sfiancato dalla fasulla ed etero diretta democrazia social, dalle fake news di ogni tipo a cui risulta di fatto impossibile controbattere perché quella successiva sarà ancora più inverosimile della precedente, con effetti moltiplicativi incontrollabili e dirompenti, la parola Cultura è bandita.
Meglio, sostituita da due voci la cui scaturigine deriva semplicemente dall’inversione delle sillabe che la compongono, cul tura, con il significato e l’implicito disprezzo che il loro accostamento contiene. Così prevale la becera narrazione di fantasiose provocazioni, veicolata anche da pseudo intellettuali occidentali dalla dubbia buona fede, da cittadini comuni che disprezzano i c.d. “giornaloni” ed i media perché strumenti di falsità e si inventano verità alternative, prive di qualsiasi riscontro oggettivo se non qualche post sui social “ad usum delphini”; notizie arraffate qui e là senza logica o uno straccio di prova che non sia la parola di imbecilli o prezzolati dispensatori di idiozie.
Ricordo il rimbrotto veemente e sarcastico di un premio Nobel durante un convegno di fronte ad affermazioni di questo tipo: “Dear sirs, read the history again”. Ebbene, a questi apologeti della teoria della provocazione, della Russia ed Ucraina come un solo popolo, della fantomatica minaccia di un allargamento ad Est della Nato , consiglio la lettura di un libro di Milan Kundera, ammesso e non concesso che posseggano la capacità di comprenderne appieno il significato profondo: “Un occidente prigioniero”.
L’opera contiene le riflessioni del grande scrittore ceco sul destino dei Paesi dell’Europa centrale. Nazioni che si erano sempre considerate occidentali , perché in effetti lo erano, storicamente e culturalmente; ma che all’indomani della Seconda guerra mondiale si trovarono, contro la loro volontà, parte integrante del regime sovietico. Non a caso, scriveva Kundera, è qui, non in Bulgaria o in Bielorussia, che sono scoppiate le rivolte di popolo più accese e partecipate, soffocate nel sangue dall’intervento dei carri armati russi, senza i quali quei regimi sarebbero collassati nel giro di pochi giorni.
Per gli immemori, parliamo di quanto accadde in Ungheria nel 1956, della primavera di Praga nel 1968, delle rivolte polacche del 1956, 1968 e 1970 prima ancora delle battaglie di Solidarność negli anni Ottanta. Va bene, ma qual è il nesso di questo refreshing storico con l’Ucraina? Nel luglio 2021, Putin scrisse un lungo articolo intitolato “Sull’unità storica tra russi e ucraini”.
La sua lettura è illuminante in quanto egli sosteneva una tesi molto chiara: ucraini e russi costituiscono un unico popolo e ogni tendenza separatista ucraina non è altro che il frutto di un complotto occidentale, che addirittura principia dall’Impero austroungarico durante la Prima guerra mondiale. Per il dittatore russo quindi, parlare di identità ucraina è semplicemente un’eresia. Ma, anche in questo caso, la storia vissuta racconta una narrazione differente, che ha tutti i contorni della tragicità.
Nel secolo scorso, durante l’epoca staliniana, l’Ucraina fu uno dei Paesi al mondo in cui era più pericoloso vivere. Nel 1932 e nel 1933, fu afflitta da una carestia attuata scientemente da Mosca, che gli ucraini chiamarono Holodomor, la quale causò la morte di più di quattro milioni di persone. Dopo che lo Stato sovietico aveva confiscato tutto il loro cibo, incluse le riserve di grano, i contadini venivano segregati nei loro villaggi con il divieto di spostarsi altrove per procurarsi i mezzi di sussistenza. L’obiettivo era evidente: spopolare i villaggi nelle campagne, eliminando così la possibilità che gli ucraini potessero opporre resistenza all’impero sovietico.
È proprio la memoria perenne e incancellabile dell’Holodomor il collante che ha dato la forza agli ucraini di resistere fino ad oggi. Non a caso i soldati di Putin, appena entrati in una città o in un villaggio nemico, hanno per prima cosa il compito di distruggere i monumenti eretti in onore delle vittime dell’Holodomor.
Dalla memoria di questi eventi nasce il motto che anima la resistenza ucraina “Mai più!” Negli anni Trenta e Quaranta, la maggior parte dei poeti, degli scrittori, degli artisti e dei drammaturghi di quel Paese furono arrestati e fucilati e il loro ricordo distrutto assieme alle loro opere.
Come se ciò non bastasse, rammento agli immemori quanto dichiarato alcuni mesi fa dall’ex presidente russo Medvedev: gli ucraini hanno solo due scelte, diventare russi o morire. Cecenia, Georgia e altri Stati dell’ex impero sovietico ne sono la prova. Aggiungendo, se mai non fosse stato chiaro, che se essi non accetteranno di ricongiungersi alla madre patria in un popolo comune, allora l’Ucraina sarà distrutta.
Siccome si tratta di discorsi ufficiali, facilmente rintracciabili sui canali social, invito i renitenti allo sforzo a fare un’eccezione, per fruire di un’ informazione un po’ più completa e dettagliata, se paragonata a quella a cui sono soliti attingere. Detto questo per amore di verità storica , il discorso sulla obliqua postura e sulle colpe delle democrazie liberali durante gli ultimi 30 anni sarebbe lungo.
La compiacenza verso Putin, non di rado per motivi di mero interesse personale, da parte di moltissimi leader americani ed europei è evidente, così come la sottovalutazione dei suoi più reconditi intendimenti. Le recenti mosse diplomatiche del piccolo zar, incluso il recente riconoscimento del regime dei talebani e il legame sempre più stretto con la Corea del Nord, non lasciano margini di dubbio sulle sue alleanze e sulla sua visione strategica.
Le divisioni nel campo occidentale giocano a suo favore, ma forse un briciolo di resipiscenza si sta affacciando nella mente e nei comportamenti conseguenti del mondo libero, soprattutto qui in Europa. Se la postura è finalmente quella giusta, ce lo diranno i prossimi mesi, perché il tempo a disposizione potrebbe non essere ancora lungo. Per concludere, una breve chiosa sul politicamente variegato e non di rado sbracato “universo pacifinta”.
Certo, come non preferire a conflitti che cagionano centinaia di migliaia di vittime la via del negoziato? Ma perché, oltre a reiterare vuote parole d’ordine e mobilitazioni “ad minchiam”, non si attivano in prima persona perseguendo questa prospettiva? Forse a motivo della loro scarsa credibilità internazionale? Mi sia consentito di suggerire loro una via: quella di proporre un referendum, sotto l’egida ed il rigido controllo delle Nazioni Unite, che chieda al popolo ucraino, anche quello residente nelle zone ora occupate dalla Russia e costretto a fuggire, se vuole stare con Mosca o con Kiev.
Sarebbe un bell’esempio di esercizio di sovranità popolare e nessuno potrebbe con motivi non pretestuosi contestarne il risultato. Strano, o magari sospetto, che oltre a proferire vaniloqui senza costrutto non ci abbiano ancora pensato.