Recenti avvenimenti e conseguenti prese di posizione hanno gettato una luce abbagliante su alcune questioni

Di: Andrea Panziera

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In un mio precedente contributo, mi ponevo la domanda su quale idea di Europa abbiano i cittadini italiani, che l’8 – 9 giugno si recheranno alle urne. Ma soprattutto, mi chiedevo quale sia la proposta che, riguardo a questo tema, viene avanzata dai diversi schieramenti politici. Recenti avvenimenti e conseguenti prese di posizione hanno gettato una luce abbagliante su alcune di queste questioni, rendendo inevitabili ulteriori considerazioni. Come noto, l’idea primigenia di una forte forma di aggregazione delle Nazioni del Vecchio Continente scaturisce dal Manifesto di Ventotene, dal titolo Per un’Europa libera e unita; si tratta di un progetto di promozione dell’unità europea, scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni nel 1941, mentre erano confinati nell’isola per le loro posizioni dichiaratamente contrarie al regime fascista. La realizzazione di questo ideale ha trovato concreta attuazione nel Trattato di Roma del 1957 e da allora si è avviato un processo di integrazione progressiva e duratura fra gli Stati membri, culminato con la creazione dell’UE. In questi anni, essa ha garantito benessere e sicurezza ai suoi cittadini: invito i dubbiosi e gli scettici a guardarsi le statistiche economiche e la legislazione in tema di diritti civili, soprattutto in relazione a quanto accaduto nello stesso arco temporale nei Paesi europei non membri ovvero in tutti gli altri governati da regimi autocratici. Stati un tempo belligeranti, hanno creato un sistema di Nazioni sovrane e democratiche, che coordinano scelte e politiche sui temi cruciali, richiamandosi all’insieme di valori condivisi propri di uno Stato di Diritto. Ma ora, i mutati scenari internazionali impongono di effettuare velocemente scelte non più differibili, che attengono sia all’ulteriore integrazione in campo economico-finanziario, sia all’implementazione dell’Agenda Green, allo scopo di promuovere uno sviluppo sostenibile per le nuove generazioni. Ma negli ultimi anni, le vicende belliche che lambiscono i confini degli Stati aderenti alla Unione Europea, hanno portato in primo piano un’altra questione: quella relativa alla immediata necessità della costituzione di un sistema di difesa comune, anche alla luce del possibile, pur se non auspicabile, depotenziamento del ruolo NATO. In linea di massima, su questi principi e sulla esigenza di fornire risposte rapide e risolutive ai temi suddetti, si registra una sostanziale convergenza fra quasi tutte le forze politiche rappresentate a Bruxelles. Ma aldilà delle apparenze o delle dichiarazioni di facciata, esiste un “vulnus” non occultabile, che scaturisce dalla concezione stessa dell’Europa prossima ventura: se attribuirle più o meno sovranità nelle decisioni, ad esempio abolendo il criterio dell’unanimità con il voto a maggioranza su specifici dossier; oppure se procedere in modo opposto, restituendo agli Stati sovrani poteri e ampliando il loro diritto di veto. Nel primo caso, si renderebbe più veloce il processo che conduce ad un’Europa federalista, mentre nel secondo si tornerebbe indietro nel tempo, ad un consesso delle piccole e, ahimè, insignificanti patrie, deboli sia politicamente che sul versante economico, facili prede dei malintenzionati di turno. Per la prima volta dalla sua nascita, l’Unione Europea si trova ai suoi confini una nazione che minaccia la sua sicurezza. Ricordo, a chi lo avesse scordato, che in aggiunta a molte altre pretestuose affermazioni, il fine dichiarato dell’invasione russa in Ucraina sarebbe quello di annettere i territori dove vivono 21 milioni di cittadini russofoni, che l’implosione dell’Urss ha lasciato fuori dai vecchi confini . Questo significa che tutti i Paesi già UE, o che hanno richiesto di farvi parte, all’interno dei quali sono presenti minoranze russofone, possono essere l’obiettivo di futuri attacchi da parte del Cremlino, che li considera target legittimi. A tale proposito, invito gli increduli o immemori a rileggersi i ripetuti interventi di Dmitry Medvedev, che oltre per le reiterate minacce sul possibile utilizzo degli ordigni nucleari, si è distinto per l’appoggio (di quale tipo non si sa) a tutti i partiti “anti-sistema” nei singoli Paesi UE. Peraltro, compattamente, l’establishment moscovita ha auspicato che l’8 – 9 giugno vincano le forze politiche contrarie al rafforzamento dell’Europa, a favore del ritorno agli Stati nazionali e ad un allentamento del legame con gli Stati Uniti. Manca solo il claim, ma a questo deficit voglio regalare il mio modesto contributo: “Autocrati di tutto il mondo, unitevi”. Ma, verosimilmente, il problema non sono solo le parole minacciose di qualche piccolo clone incattivito di Putin: le nostre democrazie possiedono gli anticorpi per farvi fronte. Le recenti azioni contro alcune infrastrutture occidentali, le interferenze e gli hackeraggi ad opera di manovalanza al soldo di Mosca, di stanza anche a Bruxelles e dintorni, si accompagnano ad una sistematica prassi interventista russa in ogni angolo del mondo ad alta sensibilità strategica: dai Paesi Baltici alla Finlandia, dalla Libia all’intero Nord Africa incluso il Sahel, dalla Siria alla Georgia fino alla Moldavia, la pressione o la presenza diretta del Cremlino è sempre più palpabile. Di fronte a questo scenario, il premier polacco Donald Tusk (popolare), il cancelliere tedesco Olaf Scholz (socialista) ed il presidente francese Emmanuel Macron (liberale) hanno convenuto che è giunto il momento di accelerare le tappe verso un’Europa più forte, autonomamente capace di difendersi dalle minacce di Mosca, a prescindere da quanto accadrà negli USA il 5 novembre. Sul fronte opposto, lo schieramento di conservatori ed estreme destre, punta al ritorno della prevalenza degli interessi nazionali, condito spesso con una malcelata simpatia verso il Cremlino. Forse sbaglio, ma dopo il pronunciamento del nostro Governo sull’utilizzo delle armi inviate all’Ucraina mi è venuto a mente il famoso detto di Giulio Andreotti: “A pensar male si fa peccato, ma non si sbaglia”. Così come altri prima di loro, i nostri ministri hanno invocato il dettato dell’art. 11 della Costituzione, scollegandolo da tutto il resto, per ribadire il divieto all’esercito ucraino di usare le armi italiane in territorio russo. Domanda banale: come ci si può difendere da missili, droni o proiettili di artiglieria che partono dal territorio nemico? Usando la tattica del tiro al piattello? O in che altro modo, evitando che questi regali arrivino a destinazione, provocando morte e distruzione di infrastrutture vitali? Non sono un esperto in materia, ma il semplice buon senso mi suggerisce che, per difendersi, è necessario colpire le postazioni da cui partono gli attacchi. O no? La stragrande maggioranza dei nostri alleati non la pensa come noi? Poco male, noi siamo il Paese di Arlecchino e quindi stare un po’ di qua e un po’ di là fa parte della nostra storia, passata, presente e probabilmente futura.