Negli ultimi vent’anni, chiunque in Patria abbia osato sfidare o criticare Putin è stato eliminato. Alexey Navalny è solo l’ultimo di una lunga serie
Di: Andrea Panziera
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Penso che tutte le persone russofile, pochissime delle quali sono in buona fede mentre la maggior parte condivide e approva la bassezza morale dei metodi criminali di Vladimir Putin, dovrebbero provare in queste ore quantomeno un sussulto di vergogna o se non altro un barlume di ravvedimento. Ma sono certo che ciò non accadrà. Chi ha apostrofato con l’epiteto di “nazista” Volodimir Zelens’kij, la cui famiglia è di origine ebraica, senza spendere una parola sulle reiterate ed accertate atrocità dell’esercito russo; chi si ostina a sproloquiare di pace, senza indicare una soluzione che non si traduca ad ogni evidenza in una resa senza condizioni dell’Ucraina; chi, per interessi di bottega, continua per le vie traverse a intrattenere rapporti commerciali con la Russia; chi, si chiami Tucker Carlson o Elon Musk, per inconfessabili ma ben noti motivi, liscia il pelo e asseconda i “desiderata” del piccolo zar, tutti costoro non meritano il nostro rispetto, perché sono senza dubbio alcuno sostenitori di un regime criminogeno. Regime che, è bene sottolinearlo, nelle democrazie occidentali, annovera tra i suoi più accaniti simpatizzanti i più beceri appartenenti dei movimenti della destra estrema, che si dichiarano orgogliosamente eredi di fascismo e nazionalsocialismo. Negli ultimi vent’anni, chiunque in Patria abbia osato sfidare o criticare Putin, o solo pensare di poterlo fare, è stato eliminato. Alexey Navalny è solo l’ultimo di una lunga serie di oppositori morti ammazzati, col veleno, con sostanze radioattive, impiccati, defenestrati, suicidati, freddati con armi o del tutto “casualmente” investiti da guidatori maldestri di cui non si sono mai scoperte le identità. L’elenco sarebbe lunghissimo, ma giova ricordare agli immemori i casi più clamorosi: da quello della giornalista Anna Politkovskaja nel 2006 e di una trentina di altri suoi colleghi tra i quali Yushenkov e Shchekochikhin nel 2003, Estemirova e Baburova nel 2009; o di avvocati come Markelov e Magnitsky, entrambi eliminati nel 2009, o di magnati come Berezovsky nel 2013, politici come Nemtsov nel 2015, o ex agenti segreti, come Litvinenko nel 2006. Raccomando ai lettori di ascoltare la illuminante intervista di Monica Maggioni a Mikhail Khodorkovsky, ex capo della Yukos, fuggito in Svizzera dopo aver scontato 10 anni di carcere duro e trasmessa in queste ore sui canali Rai. Per chi non lo ricordasse, l’oligarca russo era ritenuto nel 2003 l’uomo più ricco del suo Paese, con una fortuna stimata in 15 miliardi di dollari e classificato al 16º posto nella lista dei miliardari di Forbes. Il suo torto era quello di essere il fondatore e leader dell’organizzazione anti-Putin «Open Russia», accusata dal Cremlino di essere un agente straniero. Ebbene, le parole di Khodorkovsky, non lasciano dubbi di sorta: le elezioni che si terranno da qui a un mese sono una farsa, perché tutti i possibili contendenti reali sono stati eliminati o messi nella condizione di non nuocere. Gli ipotetici avversari rimasti in campo sono delle marionette manovrate dai vertici del parlamento (Duma), al solo scopo di creare il simulacro di una competizione. Il caso più eclatante, ma non l’unico, è quello di tale Boris Nadezhdin, la cui candidatura è stata rifiutata dalla Commissione elettorale centrale della Federazione russa, in quanto sulle circa 105.000 firme depositate a sostegno del suo nominativo, ne sono state trovate 9.104 irregolari, per cui non si è raggiunto il numero minimo di firme, che è 100.000. In realtà, la motivazione vera è che l’esponente del movimento “Iniziativa Civile” rappresentava l’unica forza politica apertamente contraria alla guerra con l’Ucraina. Il risultato di queste epurazioni “ante voto” è che alle prossime presidenziali la scelta sarà limitata, oltre a Putin, ad altri tre candidati, tutti parte integrante dell’establishment , che in comune, oltre alla fedeltà al capo supremo, hanno il fatto di essere stati sanzionati dall’Occidente. Anche sul conflitto con l’Ucraina le argomentazioni di Khodorkovsky non lasciano spazio ad interpretazioni di sorta. I prossimi bersagli saranno gli anelli deboli della Nato, i Paesi baltici, perché da quando è al potere la strategia di Putin presenta una costante ripetitiva: la guerra come unico mezzo di consolidamento del suo potere, dalla Cecenia, alla Siria alla Georgia fino alla Crimea, passando per la repressione dei moti di protesta nei. piccoli Stati satelliti dell’ex URSS. Proprio in queste ore sta venendo alla luce una vicenda simile a quella Navalny, con un epilogo che rischia di essere il medesimo. Mi riferisco alle voci su Vladimir Kara-Murza, del quale la moglie non ha più notizie da settimane. Giornalista prima presso il quotidiano Novye Izvestia, poi a Kommersant ed infine presso il canale tv indipendente NTV, collaboratore di testate internazionali come Washington Post, Wall Street Journal, Financial Times, divenne famoso quando ottenne, insieme a Boris Nemtsov e grazie a una mirata azione lobbistica negli Usa, l’emanazione della prima legge che prevedeva sanzioni personali contro quei funzionari russi coinvolti in violazioni di diritti umani (legge Magnitsky, approvata durante la presidenza di Obama). Il suo impegno gli procurò una serie di guai di vario tipo: dapprima il licenziamento dal canale televisivo dove lavorava, poi, nel 2015, alcuni mesi dopo l’omicidio del collega di lotta politica Nemtsov, avvenuto su un ponte a pochi passi dal Cremlino, il suo avvelenamento , quando faceva il coordinatore di Open Russia, l’organizzazione politica di Mikhail Khodorkovsky. Salvato in extremis, Kara-Murza fu nuovamente avvelenato nel 2017. Essendo ancora una volta sopravvissuto, venne arrestato a metà del 2022 con non meglio precisate “ cause amministrative” ed infine processato per “aver diffuso notizie false sull’esercito russo basate sull’”odio politico”. Da allora, sono state aggiunte ulteriori accuse, fino a quella definitiva di “tradimento”, con l’incriminazione aggravante di essere “nemico del popolo”, che ha provocato una condanna a 25 anni di carcere. Tutto ciò, così come gli arresti delle persone per bene che in queste ore hanno il coraggio di esporsi e depositare un fiore in memoria di Navalny, dovrebbe suscitare un’ondata di indignazione collettiva; ma, come ha scritto il mio ex collega di università Federico Rampini, non vedremo cortei sfilare nelle nostre strade contro il mandante dei suoi assassini. I dissidenti continueranno ad essere incarcerati e di molti di loro si perderanno le tracce, mentre nel contempo continueranno le marce contro le armi date all’Ucraina, colpevole per il solo fatto di esistere e, per questo motivo, di decidere da che parte del mondo voler stare. Il bello, o forse il brutto, delle democrazie liberali è proprio questo: esse tollerano anche il dissenso di chi apertamente le odia e che sostiene le ragioni di regimi/sistemi i quali, a parti invertite, non darebbe loro alcuna possibilità di parola. Forse sarebbe il caso di rinverdire la valenza di questa semplice ma fondamentale consapevolezza, soprattutto, ma non solo, presso le giovani generazioni. A meno che il fatal destino al suicidio dei sistemi democratici non sia più vicino al compiersi di quanto la gran parte dei suoi beneficiari pensi, per ignavia o cecità.