A chi gli rimproverava di amare troppo il rischio era solito rispondere che questo era il mestiere dell’imprenditore. Che faceva parte del gioco

Di: Andrea Panziera

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Erano le 10,00-10,30 di trent’anni fa, giorno più, giorno meno. All’epoca ero Presidente di Eurofutura Holding, capofila di un gruppo finanziario che spaziava dall’intermediazione borsistica con la sua omonima S.I.M. , alle amministrazioni personalizzate di patrimoni mobiliari, passando dalla gestione collettiva del risparmio attraverso Gestimerchant, una Società di Fondi di Investimento, ex Lege n. 77 del 23 marzo 1983. Come per tutti gli operatori del settore, le vicende economiche, nazionali ed internazionali, erano oggetto di analisi e conseguenti decisioni assunte in tempo reale. Peraltro, in quegli anni, con il tornado Tangentopoli che dispiegava i suoi effetti, l’intreccio fra sistema economico e vicissitudini giudiziarie, con le inevitabili conseguenze personali e imprenditoriali, per alcuni fra i più noti esponenti del mondo degli affari, costituiva un tutt’uno inscindibile ed ogni previsione era fatalmente destinata ad essere smentita qualche ora dopo essere stata formulata. All’epoca, Internet era ancora un oscuro oggetto del desiderio e le notizie importanti venivano veicolate tramite agenzie di stampa o edizioni straordinarie dei telegiornali. Se si era fortunati e si poteva contare su una buona rete di conoscenze, esse arrivavano in tempi molto ravvicinati tramite telefono. Ricordo come fosse oggi la concitazione di mia moglie, che mi riferiva della chiamata di una sua cugina nonché ex collega, la quale la informava della morte di Raul Gardini. Questa ragazza a quel tempo lavorava, come già in passato mia moglie, per una società finanziaria leader nazionale nel settore dei prestiti sindacati, la cui sede era per l’appunto in piazza Belgioioso a Milano, nello stesso edificio dove si trovava l’imprenditore ravennate. Quella notizia mi lasciò letteralmente sgomento e la condivisi subito con il mio socio storico, nonché amico fraterno, Giuseppe (Pino) Frezza. La domanda a cui era necessario dare un riscontro in tempi rapidi, al fine di evitare possibili contraccolpi sui portafogli dei risparmiatori, era semplice ma nel contempo la risposta rischiava di essere condizionata dallo stato di emotività e dal timore di sbagliare: come comportarsi con i titoli del gruppo Ferruzzi? La nostra esposizione non era eccessiva e la decisione fu quella di alleggerire con gradualità le posizioni in essere, anche allo scopo di valutare la reazione del mercato. Questa scelta, peraltro, prescindeva dal nostro giudizio su Gardini e sul suo operato nel sistema economico-finanziario italiano di quel periodo. A distanza di 30 anni, con la mente sgombra da qualsiasi forma diretta e indiretta di coinvolgimento, mi sento di affermare che lui è stato uno degli imprenditori più lungimiranti degli ultimi 50 anni, quello la cui visione del futuro si è rivelata più rispondente alla realtà. L ’eco della sua morte ebbe una risonanza planetaria, perché tale in vita era stata la sua figura. Non a caso il suocero Serafino Ferruzzi, il re dei cereali, un personaggio che ad ogni sua apparizione veniva omaggiato dal Chicago Board Of Trade, la Borsa Merci più importante al mondo, pur avendo 4 figli, lo aveva indicato come suo erede. Gardini aveva creato in dieci anni un gruppo agroindustriale e chimico, Ferruzzi-Montedison, di dimensioni internazionali, con oltre 90 mila dipendenti. Ma lui non si era limitato a questo. Grazie alle sue molteplici iniziative aveva promosso l’introduzione della coltivazione della soia in Italia su larghissima scala a partire dal 1981. Aveva ideato il “progetto etanolo”, che prevedeva la produzione di benzina verde (bioetanolo) utilizzando le enormi eccedenze di cereali, anche se l’opposizione delle compagnie petrolifere, tra le quali in prima fila l’Eni, nel 1987 avevano bloccato l’iniziativa, prima in Italia e poi a livello comunitario. Aveva anche conquistato la leadership europea nel settore saccarifero, riuscendo a conseguire nell’86 il controllo della francese Beghin-Say attraverso Eridania. Ravenna, il piccolo capoluogo di provincia romagnolo capitale dell’impero dei Ferruzzi, era diventata il polo agroalimentare più importante del vecchio continente. Per Gardini, con solide radici familiari nel mondo rurale, il famoso detto “contadino, scarpe grosse, cervello fino” valeva solo per la seconda parte. Già a metà degli anni ottanta egli aveva indirizzato i suoi collaboratori del Centro di ricerca e tecnologia Ferruzzi (Fertec) a sviluppare una serie di prodotti chimici a basso impatto ambientale, utilizzando le materie prime di origine agricola per produrre etanolo e bioplastiche, intuendo che il futuro del sistema industriale avrebbe dovuto avere come modello di riferimento l’economia circolare e come primo obiettivo da perseguire quello della sostenibilità. Peraltro, questo processo permeato di innovazione non avrebbe dovuto penalizzare i livelli occupazionali, ma consentire la creazione di nuovi posti di lavoro. Il sogno e la caduta di Gardini portano lo stesso denominatore comune, che si chiamava Enimont; si trattava della new company attraverso la quale fu attuata la fusione delle attività chimiche di ENI e Montedison, della quale i due conferenti possedevano il 40% ciascuno, mentre il restante 20% era nelle mani del mercato azionario. La classe politica, senza distinzione fra maggioranza e opposizione, aveva garantito la concessione di massicci sgravi fiscali necessari a far decollare economicamente il progetto, ma il relativo Decreto Legge decadde per ben due volte in Parlamento. Da lì, iniziò una lotta senza esclusione di colpi, che coinvolse tra gli altri alcuni magistrati di cui si accertò in seguito la corruzione. La contesa si concluse con il fallimento del progetto Enimont e, poco dopo, con l’avvicendamento di Gardini dalla guida del gruppo Ferruzzi. A tale proposito, egli scrisse una lunga lettera al Sole 24 Ore in cui spiegava il suo punto di vista sull’intera vicenda: “Continuo a pensare che l’idea di dare vita a un grande gruppo chimico italiano fosse un disegno strategico giusto. Il cui fallimento deve essere imputato alla volontà di non mollare la presa sul settore da parte delle forze politiche di allora, oltre che alla mia personale intransigenza, di cui però non mi rammarico”. Queste parole spiegano, forse come meglio non si potrebbe, il carattere del personaggio ed il suo rapporto con la politica. Mi viene in mente una celebre frase di Enrico Mattei, che sicuramente Gardini conosceva molto bene: “Per me i partiti politici sono come i taxi: li prendo perché mi conducano dove voglio, io pago la corsa e scendo”. Personalmente, l’ho incrociato una sola volta nel corso di un Convegno istituzionale a Milano, senza peraltro avere la possibilità di interloquire con lui. Mia moglie, che lo ha incontrato in più occasioni a Palazzo Belgioioso quando si recava al lavoro, mi racconta di una persona estremamente gentile ed educata, che era solito salutare sempre per primo. In realtà, l’indice dei miei ricordi, come quello di molti connazionali della mia generazione, inevitabilmente rimanda al 1992. Esattamente dopo 10 anni dalla storica vittoria nei mondiali di calcio, l’Italia intera si inorgogliva nuovamente grazie alle gesta del Moro di Venezia, che dopo aver vinto la Luis Vuitton Cup sfidava l’equipaggio statunitense per la conquista della Coppa America, la competizione velica più antica e prestigiosa. Un popolo sempre più partecipe e fiero passava le notti davanti ai televisori per guardare le regate e termini fino ad allora ignoti, come strambate, bompresso, gennaker, randa, erano diventate di uso comune. Sicuramente Gardini ha commesso non pochi errori, soprattutto di valutazione riguardo la sostenibilità finanziaria delle sue operazioni, ma si farebbe un grande torto alla sua memoria se si negasse che la sua visione del futuro era rivoluzionaria e di certo più avanti di qualche decennio rispetto a quella di molti suoi colleghi. A chi gli rimproverava di amare troppo il rischio, era solito rispondere che questo era il mestiere dell’imprenditore; creare progetti ed investire risorse per realizzarli significava esercitare una attività che per sua natura comportava dei rischi e l’eventualità di commettere degli errori faceva parte delle regole del gioco. Difficile non condividere queste parole.