Parliamo de “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana, che giusto due decenni fa faceva la sua comparsa nelle sale cinematografiche
Di: Andrea Panziera
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Nel corso di una delle mie ultime lezioni ho chiesto agli studenti se e quanti avessero visto, o almeno ne conoscessero l’esistenza, di uno dei più bei film italiani degli ultimi 20 anni. Penso che molti lettori, dalla lettura del titolo di questo articolo, abbiano intuito agevolmente a quale opera mi riferisco. Per quei pochi che non lo avessero capito, sto parlando de “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana, che giusto due decenni fa faceva la sua comparsa nelle sale cinematografiche. Il film ripercorre quasi 40 anni di storia di quella generazione di studenti cresciuta a cavallo del ’68 e poi durante “gli anni di piombo”, tra lotte studentesche, scelte e percorsi di vita alternativi, tragedie familiari e vicissitudini personali. Perché ne ho parlato, seppur per pochissimi istanti, in aula? La risposta non può prescindere dal menzionare un altro episodio accaduto qualche mese prima. Durante una mia lezione, ho proposto il video di un intervento di Umberto Eco di qualche anno fa a “Repubblica delle Idee” sul tema della comunicazione, in particolare della sua evoluzione presso le giovani generazioni. L’accoglienza degli studenti è stata nella maggior parte dei casi fredda, se non gelida e solo pochissimi hanno guardato il video fino al termine, mentre gli altri dopo una decina di minuti hanno iniziato a smanettare con lo smartphone incuranti o infastiditi a motivo delle considerazioni, a volte piuttosto sferzanti, del noto semiologo. La risposta alla domanda, rimasta sinora in sospeso, è a questo punto abbastanza intuitiva. Ho accennato a quel film per indurre i miei allievi a vederlo, stimolandoli così a riflettere sui valori dei loro coetanei di 50 anni fa. L’obiettivo non è quello di dare giudizi o stilare classifiche, ma semplicemente il tentativo di alimentare un patrimonio di conoscenze, storiche ed etiche, senza le quali ogni scelta poggia su basi estremamente labili e ogni termine di paragone risulta un esercizio totalmente privo di significato. Ultima scontata chiosa: nessuna delle persone presenti in aula aveva visto né sentito parlare del film di Marco Tullio Giordana. Ciò premesso, trovo piuttosto riduttivo e poco costruttivo indulgere sul “come eravamo” o pontificare sul “cosa sono diventati”; ogni generazione è pienamente figlia del suo tempo. Dal contesto in cui vive essa trae alimento e ispirazione. Oltre mezzo secolo fa c’era già chi intuiva i rischi impliciti di un modello sociale molto sbilanciato dal lato dei consumi. Solo ora, ma ancora in frange molto minoritarie, si sta facendo strada la consapevolezza che, probabilmente, il pedale dell’acceleratore in questa direzione è stato spinto un po’ troppo e sarebbe il caso di rivedere in termini meno compulsivi le nostre attuali abitudini commerciali, stabilendo una qualche gerarchia fra l’utile ed il futile. La strada da fare è ancora molto lunga, ma l’importante è che l’acquisizione di questa consapevolezza cominci a prendere piede. Oggi, come 50 anni fa e probabilmente come in ogni altra epoca storica, si parla di disagio del mondo giovanile, anche se la sua scaturigine e le sue manifestazioni hanno radici e motivazioni non omogenee e assumono toni ed espressioni differenti. Voler derubricare il tutto ad una questione di emarginazione sociale e alle disuguaglianze economiche (il malessere delle banlieue), che pure senza dubbio esistono e sono molto marcate, appare non solo riduttivo, ma verosimilmente sbagliato. Siamo in presenza di fenomenologie spesso differenti, così come lo status sociale dei protagonisti. Massimo Recalcati, in un suo recente contributo, individua due possibili denominatori comuni: da un lato la spinta all’edonismo senza limite alcuno, con annesso rigetto di ogni forma di responsabilità individuale; dall’altro la tendenza al ripiegamento interiore, provocato dalla paura e dal rifiuto di affrontare le sfide della quotidianità. A ben vedere, si tratta della stessa immagine del mondo reale, estremizzata e capovolta: nel primo caso la vita diventa una corsa sfrenata e senza limiti al piacere, senza un vero scopo che vada aldilà della sua sfrenata dissipazione; nel secondo si decide semplicemente di non vivere il sociale e di rinchiudersi nell’eremo della sfera personale. Recalcati, così come Eco nella sua lectio che ho ricordato prima, pone in evidenza la funzione paradossale dell’uso dei social: da strumento di implementazione dell’esercizio della libertà comunicativa, stanno sempre più diventando una sorta di dipendenza tossica dal virtuale, che si sovrappone al reale modificandone contorni e contenuti. Colpe, rimedi, azioni conseguenti? Le diagnosi abbondano, così come le cure proposte. I recenti episodi di violenza registrati nei vari Istituti hanno posto sul banco degli imputati il sistema scolastico, le sue lacune ed una imperante filosofia della permissività che sembra permearlo ormai da anni. Paolo Crepet sostiene che se il 99% degli studenti viene promosso, qualcosa non funziona e va rivisto. Se il concetto di disciplina e i criteri di selezione sono stati di fatto aboliti, poi ci penserà il mondo esterno a ripristinare entrambi, ma con metodi e risultati molto più severi e traumatici. Ma trovo ingeneroso e profondamente sbagliato riversare sulla scuola responsabilità che essa non ha e di cui non può realisticamente farsi carico. La funzione genitoriale, nella maggior parte dei casi raccontati con clamore dai media, risulta invero latitante o addirittura si è fermata subito dopo l’atto del concepimento, quindi molto probabilmente è da lì che si dovrebbe partire. Gli assistenti sociali dovrebbero servire anche a questo, ovviamente supportati da leggi e strumenti di intervento degni di questo nome. Andrebbero riscoperti e riempiti di significati operativi alcuni concetti, come spirito di sacrificio, responsabilità e credibilità; e, perché no, anche autorità, non in senso oppressivo ma come testimonianza attiva e positiva. Questo discorso vale per tutti, nessuno escluso. Vale per la classe politica (alcuni dei commenti sugli studenti fuori sede che protestano per il caro-affitti sono stati penosi); per i genitori, che dovrebbero costituire un esempio virtuoso per i loro figli; per gli insegnanti, una parte dei quali possiede poca o nulla attitudine alla didattica. Recalcati, a tale proposito, è tranchant. “Noi abbiamo un problema gigantesco nella scuola che riguarda il corpo docente: perché non applichiamo il merito nel valutare chi è in grado d’insegnare? Magari, aggiungo io, grazie al giudizio motivato di coloro che sono i destinatari dell’insegnamento, ossia gli studenti? Condivido in toto, a condizione che poi se ne tenga conto in sede di assegnazione degli incarichi, didattici ovvero organizzativi e non si attribuiscano questi compiti a consorterie di varia natura, vere camarille per la gestione del potere di piccolo cabotaggio, non di rado vocate alla “conventio ad excludendum”, nelle quali termini come merito, titoli e risultati ottenuti trovano ardua e difficoltosa cittadinanza.