Nel DEF appena reso noto viene rivista al rialzo la stima sulla crescita del PIL per il 2023, dallo 0,6% dello scorso autunno all’1% attuale
Di: Andrea Panziera
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Il termine DEF è un acronimo che sta per “Documento di Economia e Finanza”. Esso viene redatto ogni anno dal Governo – entro la prima decade di aprile – ed ha la funzione di presentare al Parlamento gli obiettivi di politica economica e le strategie per raggiungerli con l’elenco delle misure previste. Un atto che, insieme alla successiva NADEF, la sua nota di aggiornamento emanata a settembre, ed alle Linee Programmatiche, rappresenta il fondamento delle decisioni economiche e finanziarie di ogni Esecutivo nel breve e medio termine. Nel DEF appena reso noto viene rivista al rialzo la stima sulla crescita del PIL per il 2023, dallo 0,6% dello scorso autunno all’1% attuale. Nel 2024 il medesimo dato viene tagliato dal +1,9% al +1,5% . Nel 2025 si prevede una crescita dell’1,3%, mentre nel 2026 si fermerebbe all’1,1% . Questo miglioramento della previsione sul Pil 2023 dovrebbe portare ad una riduzione del livello di deficit. In soldoni, posto che la stima tendenziale per l’anno in corso, pari al 4,35% del Pil, sia effettivamente raggiunta, il mantenimento dell’obiettivo di deficit indicato in precedenza (il 4,5%) consentirà di utilizzare 0,15 punti percentuali di Pil, per un ammontare di circa 3,4 miliardi, a favore di un taglio dei contributi che gravano sui lavoratori dipendenti fino a fine anno. Stesso discorso viene ipotizzato per il prossimo anno. Una migliorata stima del disavanzo tendenziale del 2024 al 3,5% rispetto al 3,7% programmato, dovrebbe permettere di disporre di risorse per circa 4,5 miliardi, corrispondenti per l’appunto allo 0,2% del Pil. L’impiego di questo “tesoretto” dovrebbe essere analogo a quello precedente, quindi consentire una riduzione della pressione fiscale sui redditi da lavoro dipendente. Il tutto, ovviamente, nell’assunto che si rivelino corrette le suddette previsioni. Non vi è alcuna traccia, e rebus sic stantibus non potrebbe essere altrimenti, di uno dei cavalli di battaglia delle recente campagna elettorale, ovverosia il tanto sbandierato superamento della Legge Fornero, la riforma pensionistica introdotta 10 anni fa dall’allora Ministro del Lavoro del Governo Monti. Dal che si può tranquillamente trarre la conclusione che, almeno fino al 2025, l’argomento non verrà più preso in considerazione. Peraltro, che la distanza fra le promesse acchiappa voti e la loro realizzazione pratica sia, nella stragrande maggioranza dei casi, pari a quella fra la Terra e la Luna non dovrebbe essere motivo di sorpresa, soprattutto perché spesso il “costi quel che costi” costituisce solo una mera locuzione verbale, mai accompagnata dalla conseguente e doverosa quantificazione. E in questo caso la sostenibilità per le Casse dello Stato sarebbe messa a serio rischio. Prova ne sia che, aldilà delle boutade “ad usum delphini” , non sono state mai presentate proposte operative sulle quali poter abbozzare almeno un confronto. D’altronde, la spesa per pensioni in Italia ammonta a poco meno di 300 miliardi l’anno ed in presenza di un trend di invecchiamento medio della popolazione che appare ad ogni evidenza irreversibile, la sua percentuale sul PIL, già adesso fra le più alte d’Europa, pare destinata a crescere ulteriormente. D’altronde, nel corso di un recente Convegno, l’impossibilità di riformare la Fornero è stata di fatto ammessa dalla stessa Ministra Calderone, quando ha dichiarato: “Abbiamo sempre detto che gli interventi sulle pensioni dovevano essere contemperati con le disponibilità di bilancio. E anche gli interventi devono essere progressivi”. Ma invero, a prescindere dalla naturale aleatorietà delle previsioni sui futuri andamenti del nostro sistema economico, che in corso d’opera potrebbero rivelarsi troppo ottimistiche e quindi inficiare l’effettiva esistenza di “tesoretti” rivenienti da deficit migliori delle aspettative, una analisi più accurata dell’annunciata Riforma del Fisco, contenuta nel recente Disegno di Legge Delega approvato in Parlamento, fa emergere criticità che non sono state evidenziate nella giusta misura. Un dato su tutti: giusto in queste ore Bankitalia ha annunciato il nuovo record del nostro Debito Pubblico, che a febbraio ha toccato il non invidiabile picco di 2.772 m.di di euro. Rispetto al mese di gennaio l’incremento è pari a 21,6 miliardi. Ma forse ancora più preoccupante di questi numeri, è la constatazione che gli investitori esteri detengono nei loro portafogli una percentuale di BTP sul totale degli asset in continuo calo e questo costituisce un pessimo segnale per il futuro andamento dello spread. Appare quindi in tutta evidenza che le risorse per attuare la Riforma fiscale devono fare i conti con variabili che rischiano di sfuggire al controllo del Governo, a meno che non si decida di giocare la partita su altri terreni, leggasi lotta serrata all’evasione oppure taglio secco alle c.d. Tax Expenditures cioè il complesso delle agevolazioni fiscali, dalle classiche detrazioni e deduzioni d’imposta, passando per i crediti d’imposta per finire con le aliquote ridotte (come quelle per l’Iva) e le imposte sostitutive (come la cedolare secca sugli affitti). Peraltro, di queste intenzioni nel DEF non esiste traccia e quindi lascio all’intelligenza dei lettori trarre le conseguenti ed inevitabili conclusioni.