Un focus su Arthur Laffer, economista americano e consulente di Reagan conosciuto per la celebre curva che porta il suo nome

Di: Andrea Panziera

LEGGI ANCHE: Lampi News – Karaoke di guerra

Laffer, chi era costui? Arthur Laffer, economista americano e consulente di Ronald Reagan nei primi anni ottanta è conosciuto in tutto il mondo accademico per la celebre curva che porta il suo nome. Qual è l’assunto di questo grafico? Semplice: secondo il suo ideatore, la variazione della pressione fiscale si ripercuote sui comportamenti operativi delle persone. Detto in altri termini, secondo lui un aumento delle aliquote indurrebbe le persone a lavorare di meno perché finirebbero per pagare più tasse, mentre una loro riduzione le incentiverebbe ad incrementare la propria attività in quanto avrebbero più soldi a disposizione rispetto a prima. Analogamente, un rialzo delle imposte provocherebbe una crescita del lavoro nero per sfuggire alla tassazione mentre, al contrario, una loro diminuzione fungerebbe da stimolo per dichiarare il reddito realmente percepito. Conclusione: abbassare le tasse può contribuire all’espansione del PIL e quindi alla ricchezza complessiva di una Nazione. Una prima lettura della legge delega in materia di riforma fiscale appena annunciata dall’Esecutivo appare idealmente e pienamente connotata dall’assunto lafferiano. Tenendo conto della formula adottata, la conseguenza è che con questo passaggio il Governo viene autorizzato ad emanare entro due anni dei decreti legislativi per attuare riforme in campo tributario senza l’obbligo di un confronto parlamentare nel merito. E’ stato fatto anche in passato? Certo, ma su temi così delicati, procedere senza lo straccio di un dibattito, oscurando di fatto l’esame di proposte diverse e alternative, non pare comunque un metodo condivisibile, seppur istituzionalmente legittimo. Detto questo, la domanda da porsi è scontata: la teoria di Laffer ha trovato riscontri oggettivi e, in caso di risposta affermativa, in quali contesti? Perché, ad ogni evidenza, non si può prescindere in alcun modo dall’analisi del quadro all’interno del quale vengono fatte veicolare e poi applicate le sue tesi. Propongo una prima osservazione non banale ed a mio avviso non eludibile, anche assumendo a puro titolo di ipotesi che sia possibile dimostrare, numeri alla mano, la reale efficacia di una riduzione della pressione fiscale sul tasso di crescita di un sistema economico: l’Italia, in presenza di un rapporto Debito/PIL non distante dal 150% e con un contesto internazionale connotato da non sopite tensioni inflazionistiche, quindi con tassi di interesse sui nostri titoli di Stato che rimarranno ancora elevati per un periodo non breve, può oggettivamente permettersi di rinunciare ad entrate tributarie senza mettere in allarme i Mercati? E’ stato attentamente valutato l’impatto che una percezione negativa sulle aspettative future riguardo la sostenibilità dei nostri Conti Pubblici potrebbe avere in termini di aumento dello spread? Temo che la smania di passare alla storia quali promotori di una sedicente riforma epocale del nostro sistema fiscale, abbia probabilmente obnubilato le menti di una buona parte della nostra classe politica, eliminando i freni razionali che consentono una adeguata considerazione dei rischi. Ma poi, i riscontri numerici rilevati nei Paesi dove le teorie di Laffer sono state in tutto o in parte applicate, avvalorano le sue conclusioni oppure no? Il consensus della stragrande maggioranza degli economisti è molto scettico ed in ogni caso quasi tutti concordano su un assunto: in uno Stato molto indebitato come il nostro, procedere ad un taglio delle tasse senza ridurre contestualmente capitoli per pari importo della Spesa Pubblica avrebbe come inevitabile conseguenza un aumento del Debito. il retro pensiero per cui aliquote più basse potrebbero favorire l’emersione degli evasori appare più che altro uno dei tanti capitoli del libro dei sogni: chi non ha mai pagato o lo ha fatto in misura molto minore del dovuto, difficilmente correrà il rischio di lasciare nero su bianco la memoria storica della sua pregressa infedeltà fiscale. Peraltro, alcune anticipazioni riguardo la futura impalcatura tributaria, sembrano nutrire la consapevolezza di questa intrinseca difficoltà, che si vorrebbe superare introducendo una sorta di concordato preventivo sulle tasse future: una sorta di “stabiliamo ex ante il quantum da pagare per i prossimi anni e se le cose ti andassero meglio, beh, sarebbe tutto guadagno extra”. Di fatto, una riedizione neanche tanto riveduta e corretta di una vecchia proposta di Tremonti, a conferma del fatto che la prassi politica spesso è ripetitiva e non butta via nulla delle esperienze passate, errori inclusi. Questo, al momento, lo stato dell’arte. Se ai claim ed agli annunci roboanti di rivoluzioni nei rapporti fra cittadini e Fisco seguiranno atti e fatti è ancora presto per affermarlo e quanto accaduto in passato non depone a favore di questa prospettiva; al momento non sembrano particolarmente chiari e convincenti la direzione di marcia e l’obiettivo finale. Ma, prima di noi, sarà quel convitato di pietra chiamato Mercato a utilizzare il pollice per esprimere il suo giudizio definitivo e inappellabile.