Tra due mali, scelgo il minore: un’affermazione che ritroviamo in tutti i contesti, ma oggi sempre più stanziale. Quali i rischi?

Di: Andrea Panziera

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Quante volte ci è capitato di sentire che, di fronte ad alternative almeno teoricamente assai più pericolose, è meglio scegliere il male minore?

Questa convinta e spesso reiterata affermazione la ritroviamo in tutti i contesti e si associa all’assunzione di decisioni difficili, dagli aspetti a volte controversi, in politica, in economia, nel sociale, nella vita quotidiana. Peraltro, la classificazione gerarchica dei mali è fuori di ogni dubbio un esercizio vecchio come il mondo e, in merito, abbiamo nozione certa da almeno due migliaia di anni.

Ne troviamo molteplici tracce in molte teorie filosofiche e non solo. Tra gli altri, ne parla diffusamente Sant’Agostino; l’autore delle celebri Confessioni inserisce nella valutazione di alcuni di essi il concetto di calcolo economico, mentre per altri, che sfuggono a questa unità di misura a causa della loro turpitudine, il metro di giudizio è commisurato alla gravità della colpa. Se questa era intollerabile, meglio accettare l’opzione meno deleteria o fatale.

In realtà, ai giorni nostri non di rado capita che il male minore non sia più relegato in una sorta di nicchia circostanziale, quindi la scelta quasi obbligata in presenza di un evento episodico che necessita di una deroga a quello che dovrebbe essere il corretto comportamento da assumere. Nella mente delle persone, invero non pochissime, diviene un elemento stanziale: non ci si chiede più come sarebbe giusto e lecito agire, si prescinde dal definire cosa sia eticamente accettabile e cosa non lo è affatto. Si adotta ipso facto il metodo del c.d. “male minore” come unica via per assumere decisioni, istituzionali, sociali, familiari.

Come afferma Hannah Arendt, politologa, filosofa e storica tedesca, riparata negli USA nel 1937 in seguito all’avvento nazista in Germania, corriamo il rischio che “lungi dal proteggerci dai mali maggiori, i mali minori ci conducano quasi inevitabilmente verso i primi”.

Quando l’accettazione e, oserei dire, la consapevole giustificazione dei secondi, si accasa nelle menti delle persone, si tende a dimenticare che la scelta non è stata fatta fra un comportamento virtuoso ed uno perlomeno un po’ disdicevole; si è comunque deciso di manifestare comprensione per un male e questa metodologia di scelta rischia di trasformarsi in un vizio patologico del giudizio. Diventa quasi tutto più o meno tollerabile: dallo schiamazzo notturno fine a se stesso, purché non trascenda in atti fisici lesivi di cose e persone (magari si sorvola anche su quelli che per fortuna non provocano gravi conseguenze); a gesti che umiliano la dignità dell’ essere umano ( in fondo non gli ha fatto nulla! , la vieta giustificazione); a manifestazioni becere o anti-qualcosa verbalmente violente e diffamatorie, spacciandole come mera espressione della libertà di opinione.

Mi chiedo: non corriamo il rischio che questa logica bonariamente apologetica (e forsanche un po’ ruffiana) abbia come risultato parallelo un progressivo inabissamento del rating etico della nostra società, l’assuefazione ad accettare situazioni e comportamenti il cui limite non è definito né definibile con certezza ed alla fine conduca ad un deterioramento irreversibile delle condizioni di civile convivenza? E’ così fuori luogo pensare che forse certi principi molto desueti, da tempo immemore riposti nell’angolo più buio della nostra mente, quali spirito di sacrificio, responsabilità, meritocrazia, senso del dovere, andrebbero recuperati alla svelta, sia nell’ambito scolastico che in quello familiare? E su questi imperniare la formazione delle giovani generazioni? Difficile? Può essere, ma forse vale la pena di provarci.

Le scorciatoie che in apparenza semplificano la vita spesso sono foriere di patologie sociali alle quali è sempre più difficile porre rimedio. Ai lettori l’ardua risposta.