Cecenia, Ossezia, Georgia, Crimea e ora Ucraina: un copione già visto, che peraltro non era così difficile da prevedere
Di: Andrea Panziera
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Premessa: la quasi totalità dei commentatori e cosiddetti esperti di politica internazionale dovrebbero cospargersi il capo di cenere e recitare ad alta voce un doveroso “mea culpa”.
Per giorni hanno declamato a vanvera sulla improbabilità di una invasione russa in Ucraina, facendo affidamento sulle rassicurazioni di Putin e, di conseguenza, mettendo alla berlina gli annunci reiterati dell’Intelligence americana che preconizzava senza sosta l’imminenza dell’attacco.
Di questi lungimiranti politologi vaniloquenti ne salvo pochissimi, perché non era così difficile prevedere quello che poi è successo.
Il copione, questa volta se possibile ancora più truculento e sanguinario, è lo stesso già visto in Crimea, e prima ancora in Cecenia, in Ossezia, in Georgia e non solo. Invero, siamo in presenza della fine che spetta a chiunque osi sfidare il potere imperiale dello scarsi crinito autocrate moscovita.
Per quale motivo questa volta l’epilogo avrebbe dovuto essere differente?
Aggiungo dell’altro: la mossa era premeditata, preparata con cura, studiata nei minimi particolari per ridurre gli effetti delle sanzioni che inevitabilmente sarebbero arrivate. Tutte le notizie confermano che sul fronte finanziario le autorità russe si erano mosse da tempo per accumulare valute e beni rifugio allo scopo di affrontare in condizioni di relativa tranquillità le misure tutt’altro che devastanti appena varate dagli USA, dall’Unione europea e dai Paesi occidentali.
Dove non può supplire lo sgangherato apparato industriale interno, ci penserà quasi sicuramente la vicina Cina a colmare il gap, con la quale peraltro i rapporti si sono negli ultimi tempi molto riscaldati dopo anni di gelo.
Ed a Bruxelles cosa si è deciso, visto che abbiamo una guerra vera quasi alle porte di casa?
Finora, le misure adottate, ammesso che se ne possano prendere altre di molto più incisive, sortiranno l’effetto del rabbuffo fatto ad un dittatore abituato a far avvelenare i suoi oppositori e, qualora per puro caso essi si salvino, sono destinati a marcire nelle patrie galere per anni.
Ma anche noi, Stati democratici europei, dobbiamo farci un serio esame di coscienza, perché se mai esistesse l’Oscar per governanti allocchi e sprovveduti, molti dei nostri rappresentanti se lo vedrebbero assegnato ad honorem.
Al posto di diversificare, come scelte economiche razionali impongono, le fonti di approvvigionamento e diversificarne le tipologie, ci siamo legati mani e piedi all’uomo del Cremlino, quasi raddoppiando negli ultimi 20 anni la dipendenza dal gas russo.
Ora siamo sotto ricatto: o lasciamo carta bianca all’ex capo del KGB nel suo disegno di ricostituire un nuovo grande Impero russo dotato di un arsenale nucleare devastante, che non tanto larvatamente minaccia di poter usare in caso ci si opponga al suo progetto, oppure spendiamo fiumi di indignazione pelosa con sanzioni del tutto inefficaci per lui ma molto più dolorose per noi, il cui risultato concreto per gli Stati attaccati dalle armate del nuovo zar suona quasi come de profundis definitivo sulla loro esistenza.
In questo cul de sac ci siamo infilati per nostre espresse scelte economiche e politiche, e sulla base di altri scopi e motivazioni ma con identici esiti rischiamo di commettere lo stesso errore nei confronti della Cina.
L’unico lato positivo, ammesso che in presenza di centinaia di vittime civili e della soppressione “manu militari” di un governo legittimamente eletto se ne possa trovare uno, è che anche in Russia qualche forma di protesta inizia a palesarsi.
E, per manifestarla lì, bisogna essere dotati di un coraggio proprio smisurato.