L’idiozia, un virus pericoloso ad alto tasso di trasmissibilità. È sempre stato vero, ma lo è ancora di più nella nostra epoca

Di: Andrea Panziera

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A dispetto dell’opinione di clinici e sapienti, penso che l’idiozia sia un virus pericoloso ad alto tasso di trasmissibilità. Se questo è, a ben guardare, sempre stato vero, lo è ancora di più nella nostra epoca, dove basta veicolare tramite social una bufala, un’ accusa destituita di ogni fondamento, una qualsiasi stupidaggine, con la postilla che essa corrisponde alla realtà asseverata dal postante, affinché un esercito di tastiera – dipendenti la condivida subito con l’universo mondo. Rispetto la prerogativa di tutti di affermare e/o nutrirsi di ogni fandonia, seppur inverosimile: il libero arbitrio di dire e pensare è sacro e inviolabile, perlomeno in quegli Stati nei quali viene garantito il rispetto dei diritti umani, in primis la libertà di espressione. Per lo stesso motivo ritengo sacrosanto poter affibbiare l’epiteto di “pirla” a tutti coloro che, a dispetto di ogni evidenza, negano verità incontrovertibili con motivazioni che rasentano l’assurdo e in molti casi lo sorpassano. Altro discorso, ben più duro, andrebbe fatto per chi, con pretesti o argomenti volutamente parziali o manipolatori, specula scientemente su eventi drammatici, calandosi di volta in volta nella parte di untore o sciacallo, consapevolmente e senza il minimo dubbio o remora. Alla fine, peraltro, il risultato appare il medesimo: i fatti vengono stravolti, con l’obiettivo di modificare, come si dice in questi casi, la scena del crimine e l’attribuzione delle responsabilità. Senza tema di smentita, è quanto sta accadendo da alcuni giorni dopo l’efferato omicidio di Aleksej Navalnyj. Mestatori, divulgatori di fake news, imbecilli in servizio permanente effettivo, hanno dato vita ad una coalizione di salvatori dell’onore putiniano, alcuni per calcoli o interessi non confessabili, altri per un probabile deficit analitico o cognitivo. Non di rado, a onore del vero, queste figure coincidono e/o si mescolano, con il risultato di rendere ardua la loro precisa catalogazione. Affermare che spetta ai giudici, dopo l’esame dei referti dei medici, l’ultima parola sulle cause della morte del dissidente russo, è forse più stupido che apologetico, così come presentarsi al confine polacco per mostrare solidarietà all’Ucraina dopo aver indossato poco tempo prima sulla Piazza Rossa una t-shirt con l’effige dell’invasore. Con sommo sprezzo del ridicolo, si sarebbe detto un tempo. Quando mai in un Paese autocratico la magistratura ha avuto voce differente dal potere politico? Un liceale neanche tanto acculturato risponderebbe senza esitazione che ciò è pura utopia. L’unica buona notizia, se si ha il coraggio di definirla così dopo un efferato crimine, è la restituzione del corpo alla madre dopo giorni di peregrinazioni a 40 gradi sottozero; peraltro, fuori tempo massimo per effettuare accertamenti sulle cause della morte e con probabile diktat sulle modalità delle esequie. Oltre alla zelante studentessa italiota, laudatrice del paradiso moscovita, alla quale appare doveroso augurare una perpetua e felice permanenza su quel suolo, in aggiunta a coloro i quali scambierebbero un Putin con due Mattarella, si sta palesando una congerie di denigratori, sedicenti opinionisti, la cui principale qualità è l’intorpidimento delle acque o la calunnia costruita ad arte su prove totalmente insussistenti. Ad esserne colpiti sono, ante e post mortem lo stesso Navalnyj, nonché tutti gli altri dissidenti, viventi o defunti. Ricordo ai lettori che la filiale russa della società di cosmetici francese Yves Rocher aveva denunciato nel 2012 l’azienda di logistica di Aleksej e del fratello Oleg, per “abuso di fiducia”, accusa che aveva provocato la condanna dell’attivista russo a tre anni e mezzo di reclusione . La denuncia presentata dall’allora direttore di Yves Rocher in Russia, Bruno Leproux, citava presunte irregolarità nelle tariffe applicate per le spedizioni di prodotti da parte della società dei Navalnyj, Gpa (Glavnoye Podpisnoye Agentstvo). ”. Il processo ebbe uno svolgimento anomalo, con il manager di Yves Rocher che non andò neppure a testimoniare. Nel 2015 i due fratelli Navalnyj furono riconosciuti colpevoli di aver truffato il gruppo di cosmetici per un importo di 26 milioni di rubli, circa 370mila euro. Dopo di allora Bruno Leproux, lasciò il suo incarico presso Yves Rocher e fu assunto in una società russa. Chi si occupa da anni di vicende moscovite parla di “kompromat”, ovvero di una manovra abituale architettata dal regime per neutralizzare un oppositore politico”. Mutatis mutandis, si tratta delle stesse vicissitudini che hanno colpito Boris Khodorkovsky. Divenuto negli anni ’90 uno dei più importanti oligarchi, assunse il comando della Yukos, una delle maggiori imprese nell’estrazione di materie prime, in primis petrolio. Nel 2003 fu arrestato per fronde fiscale, con una successiva condanna a un anno e nove mesi di carcere. La compagnia di Stato Rosneft rilevò a prezzi di saldo gli asset più importanti della sua società. Nel 2010 fu accusato di appropriazione indebita e riciclaggio di denaro e la sua detenzione in carcere fu estesa fino al 2017. Dopo aver scontato in totale 10 anni di carcere in Siberia, fu rilasciato nel 2013; nel frattempo, il suo impero finanziario era collassato e Khodorkovsky era finito in bancarotta. Da allora vive all’estero. Della sua vicenda, fra gli altri, si è occupata negli anni anche Amnesty International che lo considera un prigioniero di coscienza, incarcerato perché aveva denunciato il diffuso sistema corruttivo presente nel suo Paese. In esilio, ha fondato assieme ad altri dissidenti “Open Russia”, un’organizzazione anti-Putin, classificata dal Cremlino come “agente straniero”. Nel frattempo, la Corte di Giustizia internazionale di Amsterdam ha condannato la Russia a risarcire, con circa 50 miliardi di dollari complessivi, gli ex azionisti della compagnia petrolifera Yukos, dichiarando che l’espropriazione da parte dello Stato della società un tempo di Khodorkovsky fu illegittima. Con questa pronuncia è stato respinto il ricorso finale di Mosca contro la sentenza della Camera Arbitrale Internazionale dell’Aja del 2014, in risposta all’azione degli ex azionisti. Questi sono i fatti provati; il resto sono chiacchiere o, peggio, artate denigrazioni, giustificazioni di atti efferati perpetrati da uno scarsi crinito piccolo dittatore e dal suo apparato di fedelissimi. Così come lo sono le atrocità che quasi quotidianamente si consumano nei Paesi che guarda caso sono suoi alleati, come l’Iran e la Corea del Nord, accomunati dal dispregio di ogni forma di rispetto dei diritti umani e dal divieto della seppur minima possibilità di dissenso. D’altronde, dimmi con chi vai, con tutto quel che ne consegue.