Don Renzo Guardini, parroco di Settimo: un uomo capace di scuotere le coscienze attraverso una fede che si rivolge al prossimo

Di: Samuela Piccoli

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Non è da tutti ricevere gli auguri per la festa della Befana di fronte a una chiesa gremita. Per gli standard concessi dalla pandemia, s’intende. Ma questo succede se il parroco si chiama don Renzo Guardini e se avete partecipato alla messa nella Chiesa di Settimo di Pescantina.

Larrivo a Settimo

Don Renzo Guardini e Nadia, la perpetua

Don Renzo Guardini è arrivato a Settimo nel 2014. Giovane ed energico, è stato accolto festosamente dalla comunità in occasione della sagra parrocchiale. Ha subito messo in chiaro due cose: “Sono uno juventino sfegatato e cerco di non perdermi una partita e amo andare in bicicletta; chiunque voglia venire con me è il benvenuto”. Quante volte, alla fine di una celebrazione, gli ho sentito dire “Guardate che, se la Juve perde, chiudo la Chiesa” oppure “Se la Juve vince, suono la campane a festa”, tra le risate dei fedeli che, con il passare del tempo, hanno imparato a conoscerlo.

Don Renzo ha deciso di avvicinarsi al sacerdozio in età matura, dopo aver vissuto, quindi, le esperienze che ognuno di noi può aver fatto: una relazione di coppia, per esempio, o le difficoltà del lavoro. È una persona molto diretta, onesta nei suoi pensieri, che ha fatto dell’accoglienza il suo punto di forza.

Qualche anno fa, su richiesta di alcune sue parrocchiane, ha permesso l’uso di un locale della canonica per organizzare un corso di Italiano per stranieri. La maggior parte delle partecipanti erano ragazze musulmane arrivate da poco in Italia e con scarsa conoscenza della lingua. È stato ben lieto di aprire la propria casa anche a persone di altre religioni e talvolta, alla fine del corso, si è fermato a pregare con loro senza alcun pregiudizio.

Accoglienza e allegria come stile di vita sacerdotale

Si va volentieri a “scroccare” un caffè da lui, perché non si parla solo di religione, ma di qualsiasi argomento. Guai, però, se ad andare a trovarlo sono interisti quanto lui sfegatati: in quel caso, gli sfottò da parte di entrambi saranno la norma. E non è raro sentirlo dire al marito di qualche “sventurata fanciulla”: “Ah, caro, manco mal che l’è capità a ti e non a mi. Ma mi son andà prete apposta”. [Ah, caro, meno male che è capitato a te e non a me. Ma io sono diventato prete apposta].

 Lui non vuole essere solo un prete convenzionale; il suo scopo, infatti, è unire le persone, organizzando anche gite e momenti di incontro cosicché tutti possano sentirsi parte di una comunità e ognuno l’anello di una catena. Per diversi anni ha organizzato gite in bicicletta per grandi e bambini, con pick nick finale una volta raggiunto il luogo prefissato. Un don allegro e scanzonato tanto quanto serio e profondo durante le omelie. Ci sono due posti dove davvero mi sento appagata, dopo aver seguito una funzione: la parrocchia di Settimo e quella di Pratofontana, a Reggio Emilia, dove don Daniele accoglie i poveri e gli esclusi e fa della parola uno stile di vita.

Le omelie e le considerazioni dei parrocchiani

Ricordo particolarmente bene due omelie di don Renzo, da cui ero rimasta colpita. Una riguardava il rapporto di Dio con l’uomo e la dicotomia delitto e castigo:

“Come è possibile che Dio possa punire l’uomo, se ne è il Padre? Un genitore, per quanto il figlio abbia sbagliato, potrà mai odiarlo e cacciarlo via? No, questo non sarà mai possibile: continuerà ad amarlo, nonostante tutto, e lo perdonerà”.

Quindi non più un Dio severo e giudice, ma un padre tenero, disposto ad accogliere tutti.

L’altra, invece, l’avevo ascoltata in occasione di Ognissanti:

“Nei cimiteri, non ci sono i vostri cari: là troverete solo le spoglie terrene. Li potete avere sempre vicini, perché sono passati nell’Aldilà e hanno raggiunto la pienezza della vita”.

Vista da questa prospettiva, la morte di una persona cara, pur se terribile, può essere affrontata con un altro stato d’animo. Parlando con i parrocchiani, ho raccolto diverse testimonianze sull’opera pastorale di don Renzo a Settimo:

Chiara: “Don Renzo ha un grande dono, quello di saper predicare il Vangelo. A mio parere, ce ne sono pochi. La sua è catechesi pura, le sue parole ti rimangono dentro, ti fanno riflettere. Mi hanno aiutato a dare risposte ai dubbi che mi porto dietro da una vita. All’inizio, mi ha destabilizzata: le sue prediche erano come un fiume in piena. Ero stupita e sconcertata, mi rifiutavo addirittura di ascoltare. Tuttavia, una voce dentro mi diceva di scavare e di cercare. Oggi, posso solo dire: grazie don!”.

Giorgio: “Don Renzo mi è sempre piaciuto, perché lo sentivo ‘uno di noi’, umile e attento ai bisogni reali della comunità. All’inizio, anch’io non accettavo di buon grado le sue omelie, perché ero troppo legato ai dogmi; mi è servito tempo per riflettere e capire veramente le sue parole”.

Tatiana: “Don Renzo ha cercato di svegliarmi da una fede un po’ piatta. Inizialmente lo allontanavo, perché mi sembravano impossibili le cose che diceva; poi, invece, ho iniziato ad ascoltarlo con il cuore e non solo con la testa. Le sue omelie ti scuotono, esci dalla funzione portandoti a casa sempre qualcosa di nuovo. Faccio fatica ad andare a messa in altre parrocchie, perché mi rendo conto che le prediche di don Renzo non sono solo pratica fredda: hanno sostanza. E io ho bisogno proprio di quella per migliorare la mia vita”.

Debora: “La parrocchia di Settimo è molto accogliente. Il vangelo ti lascia sempre con dei nodi da risolvere e il don, con la nuova dottrina, ti aiuta a scioglierli facendoti riflettere“.

Il don e la pandemia

“Le persone si possono riscoprire anche dietro le mascherine. Si può sorridere con gli occhi e ci si può abbracciare solo con uno sguardo”, dice don Renzo. “Abbiamo imparato che nessuno si salva da solo e noi tutti abbiamo il compito di prenderci cura degli altri, degli anelli più deboli della catena. Abbiamo potuto constatare che l’accumulo sfrenato serve a poco; è il rapporto con il nostro prossimo che ci può aiutare a superare questa pandemia. Ciò che conta sono le relazioni e ce ne siamo resi conto solo dovendovi rinunciare per un po’”.

Non bisogna vivere per vivere e basta, ma riscoprire cos’è davvero la vita proteggendo, in primis, quella dei più deboli. Questo è un grande insegnamento. Nei mesi scorsi, le persone e i rapporti umani sono stati rimessi al centro del dialogo: siamo forti se ci proteggiamo l’uno l’altro, siamo forti se proteggiamo sia i deboli che l’ambiente in cui viviamo, così spesso sfruttato e maltrattato senza criterio.

Abbiamo imparato che la vita scorre in fretta. Dobbiamo amare, abbracciare e curare oggi, non domani, perché non sappiamo cosa ci riserverà il futuro. Non possiamo permetterci di perdere tempo. Per la prima volta, siamo davvero tutti nella stessa barca: ricchi, poveri, ebrei, musulmani, cristiani; e siamo tutti responsabili di ciò che avviene intorno a noi.

Pensavamo di essere i padroni del mondo e, invece, ci siamo resi conto che dobbiamo stringere i fili dell’empatia e della solidarietà. Ma, nonostante i fedeli non potessero venire alle funzioni, ci siamo sentiti Chiesa: potevamo percepire di essere vicini pur nel distanziamento e nella solitudine delle nostre case. Il futuro della Chiesa è aprire la porta alla carità e alla Parola di Dio”.

Io, a dir la verità, non mi considero una brava cristiana: prego poco, ma rifletto molto. Tuttavia, se pensare è pregare, allora la mia vita è una preghiera continua. Purtroppo, ultimamente riesco a partecipare poco alla messa, ma fortuna vuole che, quando lo faccio, io porti sempre a casa qualcosa. E, in questo periodo storico della Chiesa, non è poco.