La terapia intensiva? Un reparto in cui vengono racchiuse le preoccupazioni e le speranze di tanti pazienti e delle loro famiglie. Un luogo dove angeli, umani o divini si prendono cura dei malati
Di: Samuela Piccoli
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In questi ultimi mesi si parla spesso di terapie intensive, reparti in cui vengono ricoverati i pazienti affetti da Covid in serie condizioni. Quando si pensa a questo luogo, sovviene un’immagine di desolazione, paura e abbandono, che lascia l’amaro in bocca anche alla persona più indifferente. Ma, secondo la mia esperienza personale, è un ambiente dove nascono speranze, dove le persone si sentono vicine le une alle altre, dove un pensiero positivo ha la forza dirompente di una cascata.
La corsa in ospedale e il parto
Mio figlio Pietro doveva nascere in novembre. Benché la mia gravidanza non stesse procedendo nel migliore dei modi, a causa di una placenta previa centrale diagnosticatami qualche mese prima, non avevo nessun sentore che potesse nascere in anticipo. Tuttavia, il 17 settembre del 2017, qualcosa ha cominciato ad andare storto. Mi sono dovuta precipitare in ospedale in seguito a perdite ematiche e, una volta giunti al nosocomio, la gentile infermiera mi ha informata che sarei stata loro ospite a tempo indeterminato. I polmoni del mio bambino non si erano ancora sviluppati e non potevano rischiare di mettere a repentaglio la sua vita.
Mancavano ancora circa due mesi alla nascita, quindi ad ora non so per quale motivo avessi già ultimato la famosa valigia del parto proprio la sera precedente. Il sesto senso delle mamme… Queste perdite mi hanno accompagnata a giorni alterni per tutta la settimana, aumentando poi improvvisamente la mattina del 23 settembre, giorno in cui avrebbero dovuto dimettermi. Non c’era più tempo: era in corso un’emorragia, bisognava farlo nascere con un parto cesareo d’urgenza. Mi hanno portata in sala operatoria e, quando mi sono risvegliata, Pietro stava viaggiando nella sua culla termica verso la TIN (Terapia intensiva neonatale). Era nato prematuro, alla 34 settimana.
La terapia intensiva neonatale
Durante tutta quella giornata, non sono riuscita a vederlo. Ero dolorante e non riuscivo ad alzarmi. Nel letto accanto al mio, c’era una ragazza giovane e dall’aria triste che, per rispetto, chiamerò Vasilia (nome di fantasia). Aveva appena dato alla luce una bambina di sei mesi, le cui speranze di sopravvivenza, a detta dei medici, erano poche. Abbiamo trascorso il primo giorno e la prima notte post-parto raccontandoci le nostre esperienze e soprattutto sostenendoci a vicenda. Speravo si sbagliassero, desideravo con tutte le forze che ce la facesse.
Il giorno successivo, siamo riuscite entrambe a vedere le nostre piccole creature in terapia intensiva. Prima di entrare, abbiamo dovuto seguire procedure ben precise, quelle che oggi sono all’ordine del giorno. Abbiamo indossato un camice sterile, i calzari, le mascherine e ci siamo lavate attentamente le mani, visto la fragilità dei pazienti ricoverati.
Ed eccolo lì, il mio bimbo: grande quanto un “soldo di cacio”, nella sua culla termica, attaccato ai macchinari con alcuni elettrodi e intubato, perché non riusciva ancora a respirare autonomamente. Faceva molta tenerezza e io, in tutta sincerità, ero terrorizzata, perché non riuscivo ad immaginare quale piega avrebbe preso la vicenda. I medici e gli infermieri erano molto gentili, comprensivi e disponibili, pronti a rispondere ai mille dubbi dei genitori angosciati per le sorti dei loro bambini. Mi guardavo intorno e negli occhi delle altre mamme e degli altri papà notavo la stessa preoccupazione e le stesse speranze che nutrivo io.
Le esperienze fatte in terapia intensiva neonatale
Una sera, sono tornata a casa piangendo: i medici avevano comunicato ai genitori di Mirko (altro nome di fantasia) che il loro bimbo stava male. Non sapevano se avrebbe superato la notte. Stavo per uscire dalla terapia intensiva neonatale, quando ho deciso di tornare sui miei passi. Desideravo consegnare alla sua mamma un “oggetto benedetto”, qualcosa per darle coraggio, per non farla sentire sola.
Il giorno seguente, Mirko era ancora lì. Si era ripreso, aveva vinto, ancora una volta, la sua battaglia per la vita. Nel frattempo, la bimba di Vasilia, Daniela, stava crescendo e ce la stava mettendo tutta per poter tornare al più presto a casa con mamma e papà.
È strano come le persone presenti in quel reparto fossero diventate per un po’ di tempo la tua famiglia: le vittorie di uno divengono le vittorie di tutti, come pure le preoccupazioni di una famiglia divengono quelle di tutte le altre.
Terapia intensiva neonatale di Bussolengo e il ritorno a casa
Pietro stava reagendo bene alle cure, quindi, dopo circa due settimane di permanenza in Borgo Trento, è stato trasferito nella terapia intensiva neonatale di Bussolengo. Doveva acquistare peso e imparare a succhiare il latte dal biberon. Era gracile, faticava a terminare un pasto completo. Passavamo interi pomeriggi in reparto, dove dovevamo imparare a gestirlo per essere pronti nel momento in cui ci avessero permesso di portarlo a casa.
Ogni piccola conquista ci riempiva di gioia, ma ogni piccola nota stridente ci faceva piombare nel panico più totale. E così, trascorsi altri 10 giorni, l’hanno finalmente dimesso. Anche Mirko e Daniela, tornati a casa dopo qualche mese, oggi sono bambini sani e pieni di vita, quella vita che si sono conquistati, passo dopo passo, ogni giorno.
Attualmente, esistono associazioni che si occupano si dare sostegno ai genitori dei bambini ricoverati. “Prematuramente”, alla quale prende parte la mamma di Mirko, è una di queste. I bambini prematuri vengono definiti guerrieri: appena nati, lottano per la sopravvivenza; successivamente, per raggiungere le competenze dei loro coetanei. Non stupitevi, dunque, se saranno forse più vivaci degli altri: in fin dei conti, ne hanno tutto il diritto.