di Andrea Panziera
Da molti anni il dilemma tra conservazione dell’ambiente e crescita economica è in attesa di una risposta credibile e definitiva. Sintetizzando le innumerevoli opinioni e contrapposizioni sul tema, si possono grossomodo individuare due principali correnti di pensiero: la prima ritiene che crescita e ambiente siano inconciliabili e, quindi, che sia necessario scegliere fra l’una e l’altro; la seconda pensa che sia percorribile una terza via, alternativa alle due opzioni precedenti, cioè quella dello sviluppo “compatibile e sostenibile”.
ILVA: un (triste) caso da manuale
Il problema, con maggiore o minore convinzione, è all’ordine del giorno in tutti gli Stati. Del resto, la scelta innesca conseguenze economico-sociali di non poco significato. Un caso da manuale, anche se non l’unico, è proprio l’ILVA di Taranto. La vicenda data più di 40 anni e contiene tutte le contraddizioni del nostro sistema-Paese. Quando l’allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat lo inaugurò – era l’aprile del 1965 -, il polo siderurgico ILVA, con il nome di Italsider, aveva l’obiettivo di promuovere l’industrializzazione in una zona in grande difficoltà economica come era la Taranto dei primi anni ‘60.
All’epoca, però, si ignorò del tutto la questione ambientale. Il tema dell’occupazione dominava su tutti gli altri e la dislocazione degli impianti proprio a ridosso di alcuni fra i quartieri più popolosi della città fu un peccato originale le cui conseguenze si sarebbero palesate e pagate in modo drammatico nei decenni successivi. Come in molti altri casi, lo Stato imprenditore non dette prova di particolari virtù e dopo 30 anni la famiglia Riva acquistò il polo siderurgico. Il seguito è tristemente noto: i Riva sono stati perseguiti per una lunga serie di reati penali, soprattutto – ma non solo – economico-finanziari; al contempo, la gestione dell’acciaieria ha determinato nel corso degli anni problemi serissimi di sicurezza sul lavoro e un disastro ambientale di proporzioni catastrofiche, con un aumento delle più svariate patologie, causa di diverse centinaia di morti.
L’entrata in scena dell’ArcelorMittal
Nel giugno 2017 , dopo lunga gestione commissariale, un contratto ha decretato la cessione dell’Ilva alla cordata franco-indiana di ArcelorMittal. L’accordo tra le altre clausole prevedeva uno “scudo penale“, ovvero una manleva di responsabilità per l’acquirente finalizzata al compimento delle opere di bonifica ambientale. Veniamo così ai giorni nostri…
In tutto il mondo la produzione di acciaio è in crisi, anche come conseguenza della guerra dei dazi cino-americana. Si chiudono o ridimensionano impianti un po’ dappertutto (basti pensare ad esempio a British Steel) e l’abolizione dello scudo penale ha rappresentato l’assist offerto su un piatto d’argento ad ArcelorMittal per recedere dagli accordi. La guerra delle carte bollate si annuncia lunga e dall’esito non certissimo, ma sul tappeto rimane la decisione immediata in merito al destino di oltre 15.000 famiglie, incluso l’indotto, nonché la valutazione anch’essa urgente riguardo le conseguenze per il mancato approvvigionamento della materia prima indispensabile per molte imprese italiane.
Ritorno dello Stato imprenditore?
Le posizioni sul campo indicano che gran parte della politica e i sindacati vogliono il proseguimento delle attività. Tuttavia, pare evidente che chiunque vorrà farsi carico delle sorti dell’azienda dovrà mettere sul tavolo un massiccio programma di investimenti teso a sostituire progressivamente e rapidamente quelle parti di impianto particolarmente inquinanti. Parimenti, risulta imprescindibile predisporre in tempi ragionevoli una delocalizzazione di interi quartieri che semplicemente non dovevano essere lì. Ritorno dello Stato imprenditore, come evoca qualcuno? Lo vietano le normative, prima ancora che la memoria mai sopita di esperienze pregresse fallimentari. Ugualmente, parlare di intervento europeo è solo un discorso di fantapolitica senza alcun fondamento.
L’acciaio, come ha giustamente fatto notare qualche osservatore un po’ più razionale, va prodotto da chi lo sa fare. Per convincerlo a sobbarcarsi un’impresa che appare molto complessa, lunga e costosa, lo Stato dovrà in ogni caso fare la sua parte; e – lo diciamo per onestà – l’onere tutt’altro che marginale ricadrà ancora una volta sui contribuenti.