L’attuale uso dei social media impone la necessità di una regolamentazione per bilanciare libertà d’espressione e responsabilità

Di: Andrea Panziera

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“La libertà non è star sopra un albero
non è neanche il volo di un moscone
la libertà non è uno spazio libero
libertà è partecipazione”

Questo è il ritornello di una delle più belle canzoni di Giorgio Gaber, scritta più di 50 anni fa. I social non esistevano ed i loro ideatori non erano ancora nati. All’epoca, libertà significava essere parte attiva, protagonisti sul terreno dei cambiamenti che allora coinvolgevano, nel bene e nel male, i giovani di tutto il mondo. Nelle assemblee studentesche ci si scontrava, in qualche caso anche duramente e nelle piazze la tensione spesso saliva alle stelle. Il confronto delle idee era aspro, a volte non ci si limitava al mero scambio verbale delle opinioni. Ricordo in particolare uno slogan, scandito a gran voce dagli studenti durante una delle non rare occupazioni del liceo Parini, dove studiavo: “Nelle scuole vogliamo la democrazia e il Governo ci manda la polizia”. C’era voglia, ansia, sete e fame di rinnovamento, la direzione e le istanze erano probabilmente un po’ confuse, in qualche caso piuttosto contraddittorie, ma ci si batteva per ideali o utopie, si discuteva con passione, si leggeva di tutto, ci si informava e si è diventati uomini e donne alfine consapevoli all’interno di questo percorso personale, magari un po’ tortuoso, che si è affinato e indirizzato giorno dopo giorno, anno dopo anno. Certo, in mezzo c’è stata la ben poco edificante stagione del terrorismo, rosso e nero, non di rado etero diretto da qualche manina degli apparati. Ma dopo anni di dolore e perdite, che tuttora rimpiangiamo, ne siamo usciti. Ritengo che la gran parte di noi abbia fatto tesoro degli errori, delle sottovalutazioni, delle omissioni e si sia compresa la valenza di quella complessa parola che si chiama libertà, delle sue molte sfaccettature, dei suoi contenuti e dei suoi necessari confini. Sì, perché una liberta senza paletti e limiti non esiste, è puro caos ed apre varchi e imponenti praterie verso l’ignoto, diviene un vuoto a perdere che può riempirsi di tutto. E questo tutto è quasi sempre il peggio del peggio, un mondo dove parole come valori, solidarietà, equità, umanità, studio, scienza e conoscenza, non hanno più alcun diritto di cittadinanza. Un mondo dove pure l’ultimo dei cretini, che avrebbe oggettive difficoltà a scrivere la lettera “o” con l’aiuto del fondo del bicchiere, può permettersi di pontificare pseudo verità, viete banalità o totali idiozie grazie ai c.d. “nuovi strumenti democratici di comunicazione di massa”. Sono di questi giorni alcune news che hanno fatto gridare allo scandalo l’esercito ormai più numeroso e agguerrito, in apparenza meno letale di quelli attualmente belligeranti: quello composto dai milioni di leoni da tastiera. A scatenare la loro ira, ma soprattutto quella dell’enclave di autocrati e dei loro main sponsor nonché sodali economici, sono stati in particolare due provvedimenti. Il primo riguarda l’arresto in Francia di Pavel Durov, fondatore e CEO del sistema di messaggistica Telegram; il secondo, il blocco in Brasile di X, ex Twitter, il cui proprietario, l’arcinoto miliardario Elon Musk, viene ritenuto dalla magistratura locale co – responsabile riguardo la diffusione di notizie false, per di più incitanti all’odio, da parte di profili in qualche modo collegati all’ex presidente Bolsonaro. Nel primo caso, il magnate russo sarebbe stato fermato per essersi rifiutato di fornire i codici di accesso di Telegram, network di cui assieme al fratello è proprietario. Secondo le accuse rivolte dalla magistratura francese, grazie all’anonimato garantito dal suo sistema crittografato, il canale social avrebbe fornito copertura a crimini della peggior specie, quali terrorismo, narcotraffico, pedo – pornografia. Quasi nelle stesse ore, un altro imperatore dei social media, Mark Zuckerberg, palesava a scoppio ritardato presunte pressioni ricevute dal governo di Washington affinché Facebook censurasse le opinioni più oltranziste No Vax e negazioniste del Covid, peraltro non specificando in quali termini esse si sarebbero materializzate. Ad ogni evidenza, dal punto di vista squisitamente giuridico, la questione delle attribuzioni di responsabilità si presenta piuttosto complessa, così come la paternità dei reati perpetrati o celati via social. Facebook, X-Twitter, Telegram, Instagram e via discorrendo sono nella quasi generalità dei casi delle società per azioni, o quantomeno lo sono le loro holding capogruppo. Quindi, hanno dei proprietari, i soci, nonché degli azionisti di riferimento, spesso con maggioranze oltre il 50%. Ma il social network, per la sua natura, non è una entità societaria come le altre. Non è assimilabile ad una impresa manifatturiera o ad un’attività commerciale, dove vigono regole di governance e di lavoro stringenti e chi non le rispetta è fuori; di più, non si può equiparare ad un qualsiasi giornale, in cui esiste un direttore responsabile il quale a sua discrezione decide che cosa pubblicare e che cosa no, pagandone le eventuali negative conseguenze, anche penali. I social sono una sorta di agorà, dove le normative oggi presenti non funzionano e per la quale sarebbe urgente crearne di nuove, condivise a livello internazionale. I social sono uno degli ultimi frutti della rivoluzione digitale e non oso immaginare cosa potrà accadere quando si diffonderà a livello planetario l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale. Allo stato degli atti, controllare cosa viene pubblicato ogni giorno dai social è impresa praticamente impossibile, vista la mole immensa di video, commenti, post, etc. Parliamo di miliardi di documenti . Certo, i software potrebbero prevedere dei filtri, magari blocchi automatici in caso di utilizzo di parole – chiave sensibili. Di più, è cosa nota a tutti, fin dalla seconda guerra mondiale, che i messaggi crittografati si prestano a coprire attività illegali ad elevato tasso di pericolosità. Come noto, quasi tutti i social network adottano delle “linee guida” che dovrebbero stabilire, in base ad algoritmi studiati ad hoc, quali contenuti possano essere pubblicati sulla piattaforma, nonché gli eventuali effetti per gli utenti in caso di violazione di queste regole. Tutto chiaro in linea teorica, ma di difficile se non quasi impossibile applicazione nella realtà. Gli algoritmi spesso non danno risposte chiare oltreché esaustive a casi complicati, rischiano di penalizzare il sacrosanto diritto di espressione e lasciar correre gravi ipotesi di reato ben confezionate. Se si evidenziano dubbi, la scelta è demandata ad uffici di controllo, cioè all’ uomo; non basterebbe un esercito per esaminare tutti i casi controversi ed il reclutamento di questo stuolo di vigilantes va contro gli interessi economici dei “padroni del vapore”, ossia dei proprietari del network, i quali in questo limbo giuridico ci sguazzano e si arricchiscono sempre più, pregni di uno status di assoluta impunità. In particolare, poi, nel caso specifico di Telegram non esiste alcun protocollo aziendale che stabilisca quale sia il confine da non oltrepassare per il contenuto di quanto diffuso. È proprio questa peculiarità, oltre alle altre sue caratteristiche, cioè l’anonimato degli utenti e l’utilizzo della crittografia nei colloqui fra privati, ad averlo reso uno dei social più utilizzati al mondo, il cui successo deriva anche da un diffuso “sentiment” di immunità. Per questi motivi Telegram si è sempre rifiutata di collaborare con Governi e Magistrature, per togliere contenuti potenzialmente criminogeni in nome di un fantomatico diritto alla libertà d’espressione. E in verità, le argomentazioni dei fautori dei “no social limits” non stanno proprio in piedi, sia quella di comprimere le libertà individuali, che quella di creare ostacoli all’autonomia d’impresa. Come hanno acutamente notato alcuni osservatori avveduti, ad ergersi paladini di questa causa sono in prevalenza ex comunisti, ex fascisti, simpatizzanti di regimi autocratici e una moltitudine di millennials dalle incerte o ambigue radici culturali. A tutti costoro forse sarebbe il caso di ricordare, o spiegare, un principio cardine del pensiero liberale e finanche libertario: non può esistere, in un Sistema Statale e Sociale che funzioni, una frattura o anche una distanza fra la libertà personale, inclusa quella d’impresa, con il principio della responsabilità individuale, che devono sempre andare di pari passo. Mai, nel passato, una ristretta cerchia di capitalisti ha detenuto un potere economico e di condizionamento delle menti delle persone così globale ed invasivo. I social hanno annullato il confine tra pubblico e privato, indirizzato le dinamiche politiche e sociali, alterato le facoltà di percezione umana. Se la conoscenza è il presupposto fondamentale della democrazia, essa viene veicolata quasi esclusivamente attraverso la Rete. La metà degli elettori legge le notizie esclusivamente sui social nonostante il fatto che, come ha rivelato un’indagine del M.I.T. di Boston, sulle piattaforme quelle false si diffondano sei volte più velocemente delle vere. Tempo addietro Mark Zuckerberg affermò che la sua creatura è più simile a un Governo che ad un’impresa. Vero. E proprio per questo motivo a lui ed ai suoi colleghi va fatto capire, con le buone o con le cattive, che è finito il tempo delle libere praterie stile Conquista del Web, dove tutto è sostanzialmente permesso. Essi devono accettare il confronto con le Istituzioni dei singoli Stati e quelle internazionali, con l’obiettivo non più differibile di stabilire regole di accesso e controllo condivise, ispirate al connubio fra piena libertà di pensiero, da tutelare, non disgiunta dalla conseguente responsabilità personale ovvero d’impresa, qualora la prima tracimasse in fattispecie penalmente perseguibili, con le inevitabili conseguenze economiche / penali a carico dell’autore e di chi, veicolandole, non ha opportunamente vigilato. L’allarme “portafoglio”, nelle moderne democrazie liberali, ha sempre svolto la funzione di ottimo deterrente.