L’avanzata dell’Ucraina in territorio russo accende il dibattito sulle modalità di impiego delle armi occidentali
Di: Andrea Panziera
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“Panta rhei”, che nel greco antico significava “tutto scorre” è un celebre aforisma, quasi unanimemente ritenuto una sorta di essenza del pensiero di Eraclito, che peraltro non riporta queste esatte parole in alcuno dei suoi scritti. Secondo gran parte degli studiosi, con questa locuzione si è voluto sintetizzare il concetto di “divenire”, proprio della sua visione filosofica, contrapponendolo a quello “dell’essere”, attribuito a Parmenide. Nel corso dei secoli e nello specifico ai giorni nostri, gli usi e, non di rado, gli abusi di questa astrazione l’hanno fatta da padrona. Che la realtà sia di per sé soggetta a continue mutazioni, indotte da fattori endogeni o esogeni, è un dato di fatto. Che per questo motivo sia lecito o giustificabile derogare dal rispetto di ogni tipo di principio etico, fino a confezionare una sorta di morale “pret a porter”, da indossare a seconda dell’evoluzione degli avvenimenti o delle convenienze personali è tutt’altra questione. Ognuno di noi detiene il sacrosanto diritto di cambiare parere se l’acquisizione di nuovi elementi prima sconosciuti spinge verso tale direzione. In questi casi, solo gli stupidi non lo fanno. Se tuttavia la scelta è dettata dal proprio tornaconto personale o da quello di una parte a cui siamo in qualche misura legati da rapporti di interesse reciproco, di qualsiasi natura si parli, la scelta assume caratteri e merita giudizi totalmente differenti. A meno che, sotto la coltre di una fittizia condivisione ex ante, vi fossero nella realtà idee e valori profondamente diversi ed il cambiamento di oggi altro non sia che l’emergere di queste non più celabili differenze. Aldilà di questo discorso teorico, astrattamente condivisibile dai più, in particolare a cosa mi riferisco? Premetto che i contesti di cui mi occuperò trovano la loro scaturigine nell’oggettiva osservazione della mutazione di opinioni in merito ai principali eventi esterni, le due guerre in corso, ma non solo. Come ulteriore cartina da tornasole dell’ambigua mobilità dei giudizi, assumerei anche come parametro i dati macroeconomici sul nostro Paese appena resi noti dai Centri di Analisi Statistica e da alcune fra le maggiori e più accreditate Istituzioni Internazionali. Dopo questo breve preambolo, partiamo. Ora che l’Ucraina, dopo due anni e mezzo, sta avanzando in territorio russo, con lo scopo evidente di rafforzare la sua posizione sul futuro e inevitabile tavolo negoziale, si è acceso un dibattito invero assai manicheo sulle modalità di impiego delle armi occidentali. Questa reazione degli aggrediti verso gli aggressori, che avrebbe dovuto essere salutata con gioia unanime da parte delle democrazie occidentali, diviene oggetto di distinguo, e in qualche caso di irritazione, in alcune forze di entrambi gli schieramenti politici nostrani. Ed è bene sottolinearlo, queste prese di distanza avvengono solo da noi; in Gran Bretagna la posizione in Politica Estera del nuovo Governo laburista è identica a quello conservatore precedente, mentre tutti i nostri partner europei non indulgono in sofismi di sorta, o peggio, in malcelati baci della pantofola di Putin. Due brevi annotazioni, giusto per chiudere il cerchio su parole e teorie destituite di ogni fondamento. Sarebbe ora che il variegato esercito dei pacifinti tricolori, quando veicola come un mantra le parole tregua, diplomazia, negoziati e, “hic et nunc” fine della guerra, oltre a delineare un percorso serio per arrivarci, si rileggesse le reiterate dichiarazioni del sanguinario nano zar assiso al Cremlino: “La Russia non è interessata ad instaurare alcuna trattativa che non parta dalle attuali posizioni sul campo”. Punto! Quindi, cari pacifinti, abbiate almeno il coraggio di dire la vostra verità: la pace si ottiene solo con lo smembramento del territorio conquistato dai russi e l’instaurazione a Kiev di un nuovo governo a sovranità limitata. Da giorni ha ripreso vigore la querelle sull’utilizzo delle nostre armi fornite all’Ucraina, che ad ogni evidenza sta assumendo contorni inverosimili e privi di ogni riscontro, se escludiamo alcuni video – fake che la propaganda moscovita ha veicolato in rete. I più importanti Istituti di ricerca concordano nel sostenere che l’Italia, per quanto riguarda la quantità e la qualità degli armamenti consegnati a Kiev, non figura neanche tra i primi dieci Paesi europei. Giusto per dovere di cronaca, ricordo che il nostro Paese è fra i leader mondiali nella produzione ed esportazione di tecnologie per la Difesa (Leonardo, ma non solo). Di sfuggita, a chi teme una deriva politica interna guerrafondaia, sarebbe il caso di rammentare che la spesa media degli Stati Ue membri alla Nato ha toccato il 2% nel 2023, mentre noi siamo ben lontani da questa percentuale. Mi chiedo quali giustificazioni addurranno i due principali partiti di Governo al futuro inquilino della Casa Bianca, nel caso in cui il loro candidato preferito a novembre rivinca le elezioni. Per dovere di obiettività segnalo che posizioni contraddittorie albergano anche fra le fila dell’opposizione. Chi può essere così pazzo da non auspicare la pace in tutti gli scenari mondiali attraversati da conflitti? Il problema è che non esiste una pace qualsiasi; in caso contrario la cessazione delle ostilità diventa una resa alle condizioni dettate dall’aggressore. Il leader di un Paese non certo tacciabile di estremismo, ossia il presidente finlandese Stubb, su tali questioni ha pronunciato in questi giorni parole pesanti come macigni: «L’Ucraina ha il diritto di difendersi e può utilizzare le armi fornite dalla Finlandia sul territorio della Federazione russa. Non vediamo alcun motivo per limitare le attività degli ucraini e non poniamo alcun limite sulle armi che l’Ucraina può utilizzare e in quale modo». Riguardo al conflitto fra Israele ed Hamas, ho più volte espresso negli editoriali pubblicati su questo giornale la mia opinione: l’attuale governo di Tel Aviv è di gran lunga il peggiore dalla nascita dello Stato ebraico e le sue azioni rasentano e spesso oltrepassano il confine dei crimini di guerra. Il fatto che i membri delle milizie di Hamas si nascondano fra le migliaia di profughi che da oltre dieci mesi vagano tra il nord ed il sud di Gaza non giustifica in alcun modo gli eccidi di intere famiglie, spesso composte da bambini e neonati. Tutto ciò ribadito con forza, va con altrettanta chiarezza precisato che, a prescindere da chi prima o poi succederà a Netanyahu ed ai suoi alleati estremisti e provocatori, l’unica soluzione possibile e definitiva è quella dei due popoli e due Stati, senza la quale ogni accordo di tregua sarà solo una pausa temporanea in attesa del prossimo conflitto. Nel suo statuto Hamas, forte anche dell’appoggio dei suoi storici alleati, prevede la distruzione dello Stato di Israele. Di conseguenza, non può essere l’interlocutore per imbastire una trattativa di pace duratura. A chi dimentica questo non marginale dettaglio, consiglio vivamente di rileggersi qualche libro di storia e scoprirà delle verità sorprendenti, che spiegano in parte quanto sta accadendo in Medio Oriente. È cosa nota e documentata il filo nazismo di buona parte del mondo arabo, antecedente ed anche successivo alla nascita dello Stato di Israele; il gran Muftì di Gerusalemme ospite a Berlino di Adolf Hitler, il partito Baath iracheno–siriano di non equivoche simpatie naziste, l’ispirazione ideologica diretta e mai smentita di Hamas, di al-Qaeda, della Jihad islamica e di tutta la galassia dell’estremismo arabo dal nazismo hitleriano e dal fascismo di Benito Mussolini. Il Duce, fotografato su un cavallo bianco con in mano una scimitarra, si dichiarò niente meno che “Spada dell’Islam”. Senza un vero leader palestinese, che faccia carta straccia di questo lugubre retaggio antisionista, che ritorni alla spirito degli accordi di Camp David, difficilmente si troverà una soluzione il cui esito venga accettato da entrambe le parti. E fra i papabili per questo compito, arduo e assai impegnativo, non vi può essere né Yahya Sinwar né qualcun’altro a lui riferibile.
Ed infine parliamo di Conti, ovviamente quelli Pubblici, perché per quelli privati ognuno è libero di farli in casa propria. Qualche giorno fa siamo stati informati di essere prossimi a raggiungere quota 3.000 miliardi di € di Debito Pubblico ed anche il rapporto Debito/Pil pare veleggi attorno al 140%, in leggera risalita dopo alcuni anni di importanti cali. È vero, altri parametri sono un po’ più incoraggianti, ma i dati positivi sul PIL sono ascrivibili quasi del tutto al settore dei servizi, turismo in primis. Peggio di noi, ma non è una novità, è messa solo la Grecia ma in prospettiva la traiettoria di rientro nei parametri normali è migliore della nostra. Ricordo l’esultanza di qualche ministro per i successi dei collocamenti nelle Aste dei nostri Titoli di Stato: se si è disposti a pagare un surplus di interessi, ormai arrivati a 100 miliardi annui, gli investitori non mancano, ma ad ogni scadenza delle cedole essi passano a riscuotere ed allora bisogna fare i conti di quanto rimane in cassa per finanziare tutte le misure che sono state messe in cantiere. Siccome l’attuale Ministro dell’Economia è tutt’altro che uno sprovveduto, e non lo dico solo per la nostra comunanza di studi nel medesimo Ateneo, sono convinto che nella imminente Legge di Bilancio terrà conto di questa realtà. Del resto a ribadirlo era stato lo stesso Giorgetti qualche mese fa: “Più debito significa più spesa per interessi e più spesa per interessi significa risorse sottratte al sostegno alle famiglie ed alle imprese. L’equazione è piuttosto semplice ma non sempre sufficientemente chiara agli attori politici e sociali”. Oltretutto la prossima manovra sarà scritta in presenza di una procedura per deficit eccessivo e con l’obiettivo di aggiustamento dei conti che sarà indicata nel prossimo piano strutturale di bilancio da presentare a Bruxelles entro il 20 settembre. In questo quadro aiuta, seppur in misura non decisiva, il buon andamento delle entrate, legato soprattutto alla crescita delle ritenute Irpef alla fonte, aumentate del 9,9% su un anno fa e che a giugno sono state di 42 miliardi. Mi permetto di avanzare un modesto e, mi auguro, non inascoltato suggerimento: la Premier potrebbe invitare qualche componente della sua compagine a riscoprire una vecchia canzone di Claudio Villa, il cui ritornello, se non ricordo male, faceva più o meno così: “Addio sogni di gloria, addio castelli in aria, etc.” Almeno, come alternativa meno scontata e più verosimile rispetto alle trite invettive contro la BCE o i Patti di Stabilità riveduti e corretti.