Giunge la notizia di quanto accaduto in Pennsylvania a Donald Trump. Poco si sa sull’attentatore: un sostenitore deluso? Un gesto dettato dal delirio di onnipotenza?

Di: Andrea Panziera

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Mentre stavo terminando questo articolo, è arrivata la notizia di quanto accaduto in Pennsylvania all’inizio di un comizio di Donald Trump. Poco si sa sull’appartenenza politica del giovane attentatore, un ragazzo poco più che ventenne iscritto alle liste degli elettori del Partito Repubblicano, ma con recenti trascorsi non proprio chiari. Un sostenitore deluso? Un gesto dettato dal delirio di onnipotenza che pervade l’America più profonda, in cui le armi in circolazione sono un multiplo dei cittadini che le posseggono o cos’altro? Saranno le indagini a stabilirlo. Quel che è invece certo sono le conseguenze successive all’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021: dopo di allora l’impennata del clima di violenza politica non ha conosciuto soste. Un episodio per tutti: nel 2022 un estremista di destra ha aggredito senza alcun motivo Paul Pelosi, reo soltanto di essere il consorte dell’ex presidente della Camera statunitense Nancy Pelosi. La stessa figura di Trump, il suo linguaggio ed il simbolismo che si porta dietro sono la causa principale della deriva assai pericolosa in cui stanno precipitando le elezioni del prossimo novembre. Il tycoon da anni ha sdoganato la violenza politica, non solo verbale, nei confronti degli avversari o di quelli identificati come suoi nemici. Biden è stato definito in più occasioni “vecchio sacco di merda” e la sua vice Kamala Harris “una donna patetica e incapace” che ha il “cervello di un uccellino”. Come dimenticare l’auspicio di Trump a procedere all’impiccagione del Capo di Stato Maggiore delle forze armate americane, Mark Milley, il quale si era opposto all’uso delle truppe per reprimere manifestazioni di protesta? Questa narrazione ha fatto breccia nella base più estremista del suo partito; alcuni esponenti di spicco hanno dichiarato che la Harris non ha il diritto di diventare presidente, in quanto per la prima volta quel ruolo sarebbe ricoperto da “una donna che fa parte di una minoranza”. Ora, in un clima già surriscaldato, si inserisce questo gesto di un folle, che come unico risultato avrà probabilmente quello di contribuire alla santificazione del presidente più violento che la storia americana ricordi, avvicinando la democrazia USA a livelli di guardia mai raggiunti in precedenza. Merita di essere citato, solo di sfuggita e per mero onor di cronaca, il commento di qualche politico nostrano, che ha imputato ai nemici di Trump la responsabilità morale dell’attentato. Ancora una volta si è persa l’occasione di evitare lo sproloquio e la stupidaggine gratuita, ma “sic transit vanagloria mundi”. Purtroppo, gli ultimi appuntamenti elettorali hanno evidenziato che l’allarme rosso non è prerogativa esclusiva dei nostri alleati oltreoceano. In Europa non siamo messi molto meglio e forse sarebbe utile ripassare alcuni concetti fondamentali, che sembrano essere precipitati nella parte più oscura della mente di molte persone. Qual è la reale essenza di ogni sistema democratico, che ne sancisce l’indiscussa superiorità verso ogni forma, anche edulcorata, di autocrazia? L’idea, condivisa da tutti gli attori in campo, della possibilità dell’alternanza. Un sistema che presuppone l’esistenza di due, in qualche caso tre, coalizioni in competizione, le quali condividono un basilare principio di fondo: potersi liberamente confrontare sul merito delle questioni che sono sul tappeto, esprimendo ognuna la sua proposta politica, per trovare una soluzione efficace e convincente per gli elettori. Nei regimi autocratici ciò non è nell’ordine delle cose, perché “ab origine” chi detiene il potere lo esercita con ogni mezzo, lecito e no, allo scopo di evitare che questo libero e, a volte aspro, confronto di idee abbia luogo. La legittimazione popolare a governare scaturisce spesso, se non quasi sempre, dalla soppressione fisica degli avversari, da messinscene elettorali in cui i candidati ammessi sono semplici reggicoda del despota al comando, da soppressione sistematica e violenta del dissenso. In teoria, dovrebbe bastare questa semplice, ovvia, documentata e incontestabile verità, per giungere alla conclusione che ogni forma di democrazia, seppur imperfetta, è incommensurabilmente da preferire ad ogni altra tipologia di Governo. Nei fatti non è così e mai come oggi, perlomeno a mia memoria, siamo vicini a crisi profonde e, si spera, non irreversibili, di molti sistemi democratici. Ed è proprio di fronte a questa situazione di conclamate e non isolate criticità, che emergono alcune contraddizioni di fondo che caratterizzano, purtroppo, l’attuale dinamica politica italiana. Una su tutte. Il sostanziale non riconoscimento e legittimazione politica dell’avversario da parte di alcuni settori degli opposti schieramenti. Chi, come me, ha vissuto il percorso universitario nella seconda metà degli anni ’70, ricorda bene la presa sulle Istituzioni di quelli che all’epoca venivano chiamati gli opposti estremismi. Rispetto ad allora, vedo tuttavia una differenza: mentre un tempo lo scontro era totale, su qualsiasi tema, alleanze o simpatie verso leadership straniere, oggi non di rado si creano similitudini di pensiero fra le ali più radicali degli schieramenti, che spesso si traducono in veri e propri punti di vista coincidenti, non esplicitamente ammessi, ma verificabili e asseverati dalle prese di posizione e dai comportamenti politici concreti. Un tempo questa funzione di baricentro equilibratore era esercitata da alcune componenti meno barricadiere delle principali forze politiche nonché, anche e soprattutto, da quei partiti non molto rilevanti come forza numerica ma spesso fondamentali nello scenario parlamentare, per il loro tasso di competenza e per il contributo al raffreddamento sui temi più scottanti. Ricordo il PRI di Ugo La Malfa o il PLI di Giovanni Malagodi, ma non solo. Il loro ruolo non era solo quello di bilanciare il peso dei rispettivi ultras negli schieramenti principali, ma anche di rappresentare un metodo tangibile di gestione del confronto fra idee differenti, nel rispetto degli avversari, alla ricerca di soluzioni quanto più possibile condivise, con un approccio ai problemi non ideologico ma pragmatico e razionale. Cosa sia rimasto di quella eredità virtuosa nella attuale veemenza stereotipata e generalizzata della lotta politica italiana è presto detto: poco o nulla. Oggi la battaglia sulle idee soccombe a favore della delegittimazione morale dell’avversario, che non retrocede neanche dopo le assoluzioni nelle aule giudiziarie; o si utilizza la crudele messa alla berlina di vicende, costumi o identità di genere personali, che nulla hanno da spartire con i principi e la correttezza dei comportamenti che vanno tenuti nelle aule parlamentari. Una riflessione su questi temi si imporrebbe in tempi urgenti, perché condotte di tal fatta indeboliscono la qualità del sistema democratico e ne fiacca la credibilità, con il risultato che il numero dei votanti registra continui cali, che paiono inarrestabili. Ma a minare la coesione e la tenuta degli Stati, che di pluralismo e libertà di opinione hanno fatto la loro ragion d’essere, sono anche i nemici interni, coloro i quali, una volta conquistato il potere, limiterebbero o nei casi peggiori sopprimerebbero questi due principi cardine della democrazia. La loro caratteristica peculiare è l’uso subdolo e “pro domo propria” di tutte le prerogative di cui godono nei nostri sistemi parlamentari, guardando nel contempo con ostentata simpatia e tolleranza ad esperienze e Paesi nei quali questi diretti vengono del tutto negati o drasticamente limitati. Come non ricordare un famoso botta e risposta fra un esponente del PCI ed uno del MSI: a quest’ultimo, che chiedeva di mettere una definitiva pietra sopra l’esperienza del ventennio fascista, che aveva peraltro condiviso, il primo rispose che, se avessero vinto loro, oggi lui non avrebbe potuto tenere quella conversazione, perché sarebbe stato in carcere o al confino. È di tutta evidenza che questa inconfutabile verità storica non riscuote generale condivisione e le sempre più frequenti dichiarazioni omissive o di malcelata vicinanza e comprensione verso regimi autocratici suonano come triste ma indiscutibile conferma. Qualcuno parla sempre più spesso di Partiti filo-russi vs Partiti filo-americani e la questione non riguarda solo l’Italia ma una discreta fetta dei Paesi Occidentali. Non mi appassionano queste disquisizioni. Penso solo che a tutti coloro i quali palesano reiterati apprezzamenti verso regimi antidemocratici e ne rivendicano il diritto in nome della libertà di parola a tutti garantita, dovrebbe essere offerta una agognata chance esistenziale : poter sperimentare da vicino la luminosa esistenza in questi paradisi politici, grazie ad un biglietto a titolo gratuito, preferibilmente di sola andata.