Quanto avvenuto due giorni fa con l’operazione “Alluvione al-Aqsa” rappresenta un atto di guerra proditorio ed efferato
Di: Andrea Panziera
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A scanso di equivoci e malintesi, una premessa è d’obbligo. Considero l’attuale Governo presieduto da Benjamin Netanyahu di gran lunga il peggiore da quando esiste lo Stato d’Israele; inoltre, la politica di occupazione dei territori palestinesi da parte dei coloni costituisce un ostacolo pesantissimo, che si frappone ad una concreta prospettiva di pacificazione. Detto ciò, quanto avvenuto due giorni fa con l’operazione denominata “Alluvione al-Aqsa” rappresenta senza ombra di dubbio un atto di guerra proditorio ed efferato, contro il quale sarà impossibile non dare una risposta adeguata. Non ci sono giustificazioni politiche che tengano di fronte al massacro di quasi 300 giovani, colpevoli di essersi radunati in una zona desertica per celebrare con un rave party la propria aspirazione pacifista, inseguiti e falciati dai colpi di mitra senza il ben che minimo sentimento di pietà. Non ci sono alibi per il martirio in diretta di genitori che cercano invano di far scudo con il loro corpo a quello dei propri figli. Le cronache riportano particolari sconvolgenti, come il pianto di alcuni neonati abbandonati nelle case di alcuni villaggi, perché i genitori sono stati uccisi o rapiti dai terroristi nel corso dell’assalto. Nulla può legittimare simili atrocità. Chi ora inneggia alla grande vittoria, postando foto sorridenti di fronte ai cadaveri dei ragazzi, colpevoli solo di voler manifestare con la musica il loro anelito di pace, consapevolmente o meno rappresenta il peggior nemico per il suo popolo e lo condanna con il suo gesto a un destino di privazioni, sofferenze e probabilmente morte. Non sono un esperto di questioni geopolitiche, ma forse è sufficiente avere un minimo di acume per comprendere la scaturigine di quanto accaduto. Il “cui prodest” in molti casi aiuta più dell’ascolto di involute analisi apparecchiate da esperti la cui prosopopea è pari solo alla loro faziosità. Del resto, aldilà delle scontate reazioni a caldo, le quali peraltro confermano quello che già si sapeva da tempo, le più ambigue e all’apparenza equidistanti risultano anche le più significative. Che lo Stato degli Ayatollah fosse il principale alleato, sovvenzionatore finanziario e fornitore di armi di Hamas e di tutti i movimenti islamisti, era noto e non suscitano stupore le dichiarazioni e le manifestazioni di giubilo in quella parte di popolazione che si riconosce nel regime tirannico di Teheran. Il basso profilo tenuto da alcuni Paesi del Golfo, che ospitano i leader politici di Hamas, non li assolve comunque da una palese correità, a dispetto del loro tentativo di tenere i piedi in molte scarpe. Con altri scopi e implicazioni, lo stesso discorso vale per la Russia e tutti i suoi alleati, manifesti o sottotraccia. Invocare il cessate il fuoco dopo che è stata perpetrata una strage senza dire contestualmente che tutti i colpevoli, sia militari che politici, mandanti inclusi, vanno presi ed assicurati alla giustizia internazionale, equivale a concedere un’impunità di fatto a degli assassini a sangue freddo e questo non è in alcun modo accettabile. Come diceva uno dei più noti uomini politici del ‘900, “ a pensar male si fa peccato, ma non si sbaglia”; al Cremlino, la probabile futura guerra in Medio Oriente serve per dirottare l’attenzione (e risorse) del mondo occidentale su un altro fronte e questo non può sicuramente dispiacergli. Un’ultima doverosa considerazione: forse sarà un caso, ma ogni qualvolta iniziano a manifestarsi tentativi di riavvicinamento fra Israele e alcuni fra i principali Stati a religione mussulmana accadono eventi che mirano a distruggere questa prospettiva. L’auspicio è che la volontà di pacificazione sia alla fine più forte di quella dei fautori della conflittualità permanente, ma individuare ed emarginare questi mestatori incendiari da tutti i consessi internazionali è azione non ulteriormente differibile.