I mercati hanno sempre ragione ? Probabilmente no, ma non tener conto dei loro giudizi può costare molto caro in termini di politica economica
Di: Andrea Panziera
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I mercati hanno sempre ragione ? Probabilmente no, ma non tener conto dei loro giudizi può costare molto caro ed alla fine inficiare l’efficacia delle azioni di politica economica. Questo appare, senza ombra di dubbio, il risultato ottenuto dall’annuncio della tassa una tantum sugli extra profitti delle banche, che ha causato un pesante scivolone delle quotazione dei loro titoli a Piazza Affari, solo parzialmente recuperato nella giornata successiva grazie alle tardive precisazioni del MEF riguardo le modalità del prelievo. Ora, nessuno mette in discussione che vi siano stati benefici economici “straordinari” in alcuni settori, banche ma non solo, rivenienti da fattori che nulla hanno a che vedere con la normale fisiologia del mercato. Era già capitato durante la pandemia in termini ancora più accentuati per alcune imprese. È successo dopo lo scoppio della guerra per altre, soprattutto nel comparto energetico; accade di nuovo ora, per gli effetti diretti ed indiretti provocati dall’aumento dei prezzi e dalle politiche adottate dalle Banche Centrali per contrastare le fiammate inflattive. Ma, come dicevano i latini, “est modus in rebus” e dopo quanto si è verificato in questi ultimi 5-6 giorni si ha la netta sensazione che il provvedimento in questione sia stato ideato male e comunicato peggio. Il fatto stesso che, a distanza di poche ore dal suo annuncio, peraltro non diramato da quello che avrebbe dovuto essere il Ministro competente ma da fonti generiche del Governo, si sia resa necessaria una precisazione che ne smorza in maniera consistente la portata in termini di gettito e quindi l’impatto sui bilanci degli Istituti di Credito, la dice lunga su come la faccenda sia stata mal gestita, probabilmente perché le voci dissonanti non erano né poche né marginali in relazione alle attribuzioni di competenze. Alla fine, rimangono sul terreno solo alcune certezze, che alla luce dei numeri paiono difficili da contrastare. Della decina di miliardi circa di introiti ipotizzati all’inizio, ne arriveranno se va bene non più di due, il classico topolino partorito dalla montagna dell’improvvisazione. Se si raffrontano le quotazioni ex ante e ex post delle azioni di Borsa interessate, possiamo concludere che quanto racimolerà lo Stato corrisponde più o meno alla perdita di ricchezza subita dai risparmiatori, soprattutto piccoli azionisti e detentori di quote di Fondi Comuni di Investimento. Un’ altra conseguenza da non trascurare è quella indotta dalle reazioni della stampa estera specializzata e degli operatori istituzionali in primis. Mesi di attività governativa improntati alla prudenza ed alla contiguità con le scelte dell’Esecutivo precedente, allo scopo di preservare la nostra credibilità internazionale, rischiano di essere vanificati. Misure estemporanee, percepite come avverse ai principi della stabilità finanziaria, non sono ben viste dal mondo finanziario. Oltretutto, in un Paese caratterizzato da un vasto tessuto di Piccole e Medie Imprese, molto dipendenti dal credito bancario, potrebbe manifestarsi un effetto boomerang in termini di riduzione dell’offerta di prestiti o quantomeno una rimodulazione della stessa, di certo non a condizioni più favorevoli. Probabilmente ha prevalso la smania di alcuni di assumere le sembianze di novelli Robin Hood, cavalcando piuttosto goffamente l’ondata mai sopita del populismo “a la carte” che contraddistingue una parte di gran lunga maggioritaria della nostra classe politica. Se si volevano ottenere risultati più concreti in termini di risorse, sarebbe stato preferibile preparare il terreno dialogando con l’Associazione di categoria in via preventiva, allo scopo di concordare una misura probabilmente più efficace quanto ad introiti e comunque tale da non creare sconcerto sui mercati. Ripeto, è giusto attuare politiche redistributive come linea di condotta politica in generale e soprattutto in alcuni casi particolari, ma prima vanno attentamente valutate modalità e conseguenze, altrimenti i danni collaterali rischiano di essere maggiori dei benefici. Ma, a ben vedere, la questione principale sul tappeto non è neanche questa e alcuni inciampi nella attività quotidiana di governo ci sono sempre stati e vanno messi in conto. Il problema più grosso da risolvere riguarda non tanto la querelle sul salario minimo, argomento certamente importante per molte famiglie, su cui sembra ruotare tutto il confronto politico delle prossime settimane. Il tema, che a mio avviso emergerà con forza da qui alla fine dell’anno e sul quale corriamo rischi ancora maggiori rispetto a quanto accaduto nei giorni scorsi, concerne la prossima manovra di Bilancio, per quale, come si sarebbe detto molti secoli fa, “deficit pecuniam”. Tutti gli analisti sono concordi nell’affermare che, a fronte di impegni di spesa già assunti o inderogabili, pari a circa 30 miliardi, al momento le risorse realmente disponibili sono pari a 7 miliardi, euro più euro meno, inclusi i circa due provenienti dalla tassazione degli extra profitti delle banche. Quindi ne mancano all’appello oltre 20 e nessuno ha la più pallida idea di dove andarli a reperire. Comprimere quei trenta miliardi di spesa appare impresa praticamente impossibile, perché il 30% sono fondi destinati a impegni internazionali del nostro Paese ed altri riguardano misure recenti come il taglio del cuneo fiscale per i lavoratori a basso reddito, la cui non conferma significherebbe una sconfessione clamorosa di una delle poche misure sociali adottate dall’Esecutivo. Oltretutto, le prospettive di alcune delle principali economie mondiali non indulgono a particolare ottimismo e ciò potrebbe impattare in modo invero significativo sul nostro percorso di crescita. I dati negativi del PIL del secondo trimestre, per alcuni solo una frenata momentanea, per altri un primo campanello d’allarme, andranno letti alla luce di quelli che saranno resi pubblici a fine estate, ma nel caso di un nuovo rallentamento le preoccupazioni legate ai timori di una recessione incombente aumenterebbero. Per noi, ciò significherebbe mettere nel conto un ulteriore aggravamento della già precarie condizioni delle Pubbliche Finanze; in altre parole, meno introiti e di conseguenza meno possibilità di spesa. In attesa dei riscontri che arriveranno fra poco più di un mese e mezzo si è deciso di pensare alle ferie, accantonando tutte le materie oggetto di contesa ovvero, come dice qualcuno, buttando la palla in tribuna in attesa degli eventi esterni. Una cosa è comunque certa e sfido chiunque a dimostrare il contrario. Molte battaglie o misure che anche di recente hanno segnato il campo di gioco e la stessa identità di alcune forze politiche, sono destinate ad essere abbandonate o confinate nell’alveo dell’oblio, schiacciate dal peso preponderante e non negoziabile dei numeri. Addio alle velleità di riforma della legge Fornero, alla flat tax generalizzata o ad una sua maggiore diffusione, addio, purtroppo al rafforzamento di una Sanità Pubblica che presenta falle sempre più evidenti, addio, per fortuna, ad opere pubbliche faraoniche in territori che presentano carenze infrastrutturali da terzo mondo. Esistono opzioni differenti? Sì, ma costituirebbero un azzardo perpetrato sulla pelle degli italiani e obbligherebbero ad una pesante manovra correttiva dopo le elezioni europee del prossimo anno. Peccato che nel frattempo i Mercati, diversamente dalle Stelle, non starebbero a guardare.