L’Istat ha certificato la valenza del Governo Draghi, già ampiamente riconosciuta in tutti i consessi internazionali
Di: Andrea Panziera
LEGGI ANCHE: Post it – Prove di nouvelle cuisine economica
Nei giorni scorsi l’Istat, con il solito stringato comunicato, ricco di numeri e istituzionalmente scarno di commenti, ha certificato in termini chiari ed inoppugnabili la valenza del Governo Draghi, peraltro già ampiamente riconosciuta in tutti i consessi internazionali. Le previsioni finali di crescita del PIL per il 2022 sono pari a poco meno del 4%, il doppio della Germania e meglio di tutti gli altri Paesi Europei, con la probabile sola eccezione della Spagna. Quelle per il 2023 non sono altrettanto rosee e si fermano ad un modesto +0,4%, un dato a mio avviso addirittura troppo ottimistico, ma che forse risente dell’effetto traino dei 12 mesi precedenti. L’aumento dell’anno in corso deriva quasi esclusivamente dall’incremento della domanda interna (consumi ed investimenti), che segnalano rispettivamente un +3,7% ed un significativo +10%, mentre le esportazioni non hanno fatto registrare variazioni degne di nota. L’andamento dell’occupazione risulta speculare a quello del PIL, con un +4,3% negli ultimi 12 mesi e una previsione del +0,5% nei prossimi. Per quanto concerne il trend dell’inflazione, viene ipotizzato un calo nel 2023, pur con un livello medio ancora superiore al 5%. Alcuni Uffici Studi sono invero meno positivi relativamente alle prospettive dell’anno che sta per iniziare ed a mio parere le argomentazioni addotte a fondamento di tali opinioni paiono tutt’altro che peregrine. Un dato su tutti, quindi non una stima, opinabile per sua natura pur se proviene da fonte autorevole, mi induce ad essere altrettanto cauto sull’immediato futuro. L’ammontare del nostro Debito Pubblico, sulla base degli ultimi riscontri resi noti dalla Banca d’Italia, si sta avvicinando a grandi passi ai 2.800 miliardi di euro ed in un periodo di tassi di interesse crescenti questa certamente non costituisce una buona notizia. Nella nota di aggiornamento al DEF, il Documento di Economia e Finanza, l’attuale Governo ha preventivato che la spesa per interessi salirà dai 77,2 miliardi di euro del 2022 fino agli 81,6 del 2023, per scendere a 80,3 nel 2024 e risalire di nuovo nel 2025, raggiungendo quota 87 miliardi. Quindi in tre anni gli oneri sul Debito cresceranno di 10 miliardi, con una probabile tendenza costante all’aumento. Negli ultimi dodici mesi il rendimento del nostro BTP decennale è passato dall’1,3 ad oltre il 4%, con una punta di quasi il 5% ad ottobre. Ad oggi, ogni cittadino italiano, a prescindere dalla sua età (quindi compresi i neonati ed i centenari) porta sul groppone un fardello di 47.000 euro di Debito Pubblico e da questi numeri imprescindibili bisogna comunque partire per scrivere gli indirizzi di una politica economica con essi compatibile. Promesse, boutade, paccottiglia spacciata per interventi “rivoluzionari”, sortiscono l’unico effetto di minare la credibilità del nostro Paese nei consessi internazionali e di farci percepire come vittima sacrificale dai Mercati. Ricordiamo quanto accaduto allo spread nel 2011 ed in misura minore nel 2019. Ora, innescare polemiche, lanciare accuse, usare sarcasmo verso la BCE e la sua massima rappresentante non mi sembra porti benefici di alcun tipo alla nostra causa. Pensare che il Quantitative Easing, il PEPP e tutte le altre misure di politica monetaria di natura espansiva messe in campo dopo la crisi finanziaria di un decennio fa potessero durare all’infinito era un illusione tutta nostra e chi si è cullato su questa fantasia onirica, calandosi nel ruolo di apprendista banchiere centrale, dovrebbe risvegliarsi quanto prima, per il bene suo e soprattutto per quello dei cittadini. Basta leggere lo Statuto della BCE per rinfrescarsi una memoria probabilmente un po’ obnubilata dal lungo periodo del “whatever it takes”. In quel documento è scritto a chiare lettere che il suo compito primario è quello di occuparsi della stabilità della moneta unica e del controllo dell’andamento dei prezzi, con un obiettivo di crescita dei medesimi del 2% l’anno. Di conseguenza, appare del tutto illusorio il retro pensiero coltivato da molti, di tassi volutamente tenuti scollegati dall’andamento dell’inflazione allo scopo di non danneggiare Stati molto indebitati come il nostro. Rischi di instabilità politica? Può essere, ma chi è causa del suo mal, prima di incolpare parti terze, dovrebbe fare i conti e gli esami di coscienza in casa propria. E poi, di grazia, in quale teoria economica seria si preconizza il teorema che ulteriore debito, in concomitanza con un aumento consistente e generalizzato dei prezzi, sia compatibile con una crescita economica sana e sostenibile? Onde evitare topiche imbarazzanti, sarebbe probabilmente sufficiente procedere ad una rilettura critica degli ultimi 30 anni di storia del nostro Paese; molte delle misure che qualche Banchiere Centrale in erba avrebbe in animo di pretendere non sono altro che la riproposizione quasi in fotocopia degli errori compiuti nel passato, con altre sembianze e differenti attori, dissennatezze i cui effetti ci hanno portato a questa situazione. “Read the history again!” verrebbe da dire. I numeri, perché è a quelli che bisogna sempre guardare prima di ogni altra cosa, ci dicono che il 2023 non si presenta come un anno agevole per le Pubbliche Finanze, con il Tesoro che dovrà emettere oltre 300 miliardi di BTP, circa 30 in più rispetto al 2022. Il contesto presenta alcune problematicità, che solo in parte sono riconducibili all’aumento dei tassi da parte della BCE. Tutti i principali Stati dell’Unione Europea hanno in programma cospicue emissioni di titoli di debito pubblico ed in casi di elevata concorrenzialità uno dei parametri maggiormente seguiti dagli investitori è il “fly to quality”: tra le possibili alternative si sceglie quella il cui rapporto rendimento – rischio è considerato migliore. Inoltre, il venir meno della certezza del compratore di ultima istanza (da marzo la BCE inizierà a ridurre il suo consistente portafoglio di obbligazioni statali) quasi sicuramente impatterà sulle dinamiche di collocamento, con qualche possibile tensione sul nostro spread. Ma si sa, l’Homo Italicus per sua natura è maestro di creatività, spesso geniale ma alcune volte un tantino cialtronesca; così a qualcuno è balenata un’idea affascinante, peraltro già avanzata in altra ma non molto dissimile forma qualche tempo fa. Perché non pensare alla emissione di un BTP autarchico, patriottico, sottoscritto solo dai nostri connazionali allo scopo di liberare in un sol colpo la Finanza tricolore dall’iniquo giogo dei Mercati, nelle mani della speculazione internazionale, nonché dalle paturnie senili di madame Lagarde? Le contropartite offerte a questo esercito di benemeriti risparmiatori non sono state ancora completamente messe a punto, ma le ipotesi sul tavolo paiono invero assai allettanti. Si va dalla maggiorazione del tasso di interesse nominale, alla riduzione della fiscalità sul rendimento facciale lordo, fino alla parziale deducibilità delle somme investite. L’obiettivo di tanta munificenza? Una forma non dichiarata di nazionalizzazione del nostro Debito Pubblico, per sottrarlo dalle mani avide e ricattatrici dei nemici dell’Italia. Unica condizione: la non vendibilità dei titoli suddetti fino alla loro scadenza naturale, ovviamente con il corollario di una durata la più lunga possibile. Mi sia consentita una brevissima chiosa finale. Qualcuno si è cimentato nel calcolo dell’onere che graverebbe sul Bilancio statale nel caso in cui questo complesso di bonus venisse in tutto o in parte introdotto? E se le sottoscrizioni dei “BTP patriottici” da parte dei residenti in futuro non fossero sufficienti a finanziare la spesa pubblica e dovessimo nuovamente rivolgerci al deprecato Mercato, cosa succederebbe? In questa prospettiva, il passaggio dai BTP autarchici a quelli catartici diverrebbe inevitabile, con lo spettro del default mai così vicino e ad essere purgati sarebbero in primis i portafogli dei risparmiatori nostrani.