Sono passati quasi tre mesi dall’invasione russa in Ucraina, dove l’inizialmente ipotizzato conflitto lampo è ormai diventato una guerra di posizione

Di: Andrea Panziera

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Sono passati quasi tre mesi dall’invasione russa in Ucraina e alcune verità appaiono incontrovertibili. Quella che, nelle intenzioni del Cremlino, doveva configurarsi come un conflitto lampo, sta diventando ogni giorno che passa una guerra di posizione. Le conquiste delle truppe di Mosca sono limitate ad alcune zone abbastanza circoscritte, nella parte centro – meridionale del Donbass e più a Sud nella fascia di terra prospiciente al mar d’Azov.

Nel resto del territorio la ritirata dell’esercito putiniano è stata spesso disordinata e rovinosa, con ingenti perdite di uomini e mezzi. Tutti gli osservatori concordano nel descrivere una situazione di stallo, con la non avventata ipotesi che le ostilità si prolunghino ben oltre l’estate. Il fatidico 9 maggio, ricorrenza della sconfitta dei nazisti nel 1945 e, nelle intenzioni neanche tanto dissimulate da parte dei russi, data nella quale festeggiare la vittoria sull’esercito di Kiev, è trascorso nella mera esternazione di una potenza militare molto cinematografica ma poco rispondente alla realtà e con dichiarazioni assai brevi e alquanto scontate.

La dietrologia, come sempre in questi casi, imperversa e vengono adombrati tentativi di golpe, malattie gravi, ribellioni dei soldati al fronte ed altre amenità senza la ben che minima prova a supporto. L’unica certezza è che, rebus sic stantibus, impostare una trattativa che abbia come obiettivo minimale non dico la pace, ma almeno una tregua prodromica ad un negoziato non di facciata appare impresa improbabile per non dire impossibile.

Invero negli ultimissimi giorni è stato attivato un canale di comunicazione fra i vertici militari di Washington e Mosca, con la richiesta da parte dei primi di un cessate il fuoco come condizione preliminare per discutere il destino dei territori ucraini finora occupati dai russi. Questa proposta nei fatti smentisce la vulgata che vorrebbe gli Stati Uniti refrattari a qualsiasi discorso che non preveda la sconfitta di Putin ed il ritiro con ignominia delle sue truppe; anzi, nei fatti consoliderebbe la status quo, permettendo al piccolo zar di conseguire almeno una parte dei suoi obiettivi.

Per ora non si intravvedono segnali di una qualche risposta positiva, il che lascia intendere che le ostilità continueranno e, probabilmente, aumenteranno di intensità. Se questo è lo scenario, appare ahimè inevitabile continuare a supportare l’Ucraina con tutti gli aiuti possibili, incluse le forniture di armi. Non a caso, anche in questa occasione e solo nel nostro Paese, da una decina di giorni si è scatenata una incredibile bagarre politica e mediatica riguardo alla tipologia di armamenti da fornire, in una distinzione risibile fra offensivi e difensivi.

Se chi ti attacca lancia missili ipersonici, rade al suolo le città, usa bombe al fosforo e a grappolo, risulta quantomeno problematico spiegare allo Stato sotto assedio che non puoi dargli cannoni perché potrebbero essere usati per bombardare le postazioni nemiche.

Ma che dire poi di quei pacifisti d’accatto, che in nome di questo nobilissimo ideale declamato a sproposito avanzano la spudorata equazione “più armi più guerra”? Cosa dovremmo fare? Assistere ammutoliti e contriti allo scempio, o marciare invocando a squarciagola la fine delle ostilità, mentre una Nazione viene invasa e la popolazione uccisa o costretta a fuggire?

Il sospetto è che fra le fila di queste nostre “anime candide” si celi una folta schiera di filo-putiniani, un po’ attoniti dalla piega inaspettata dei recenti eventi bellici, magari timorosi che una possibile sconfitta dell’ex capo del KGB provochi l’inevitabile disvelamento di qualche altarino forse troppo compromettente.

Giulio Andreotti, pace all’anima sua, avrebbe di sicuro chiosato: “a pensar male si fa peccato, ma di tanto in tanto non si sbaglia”. Che avesse ragione?