Nell’odierno Lampi News, una strada inevitabile: la transizione eco-tecnologica. Come arriviamo all’appuntamento, tra crisi aziendali e nodo della produttività
Di: Andrea Panziera
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È indubbio che la cifra caratteristica nei prossimi anni di tutti (o quasi) i sistemi economici sarà il passaggio progressivo verso modelli in cui ecologia e tecnologia diverranno parametri inscindibili e ineludibili. I catastrofici eventi climatici che sempre più spesso interessano vaste aree del pianeta obbligano a marciare in questa direzione.
Se così sarà, e a mio avviso non sussistono dubbi in proposito, dobbiamo porci una domanda: quale sarà l’impatto sui vari Paesi, soprattutto in termini della futura configurazione e dei conseguenti mutamenti che coinvolgeranno il mercato del lavoro?
Qualcuno ha già dato una risposta tranchant: non sarà un pranzo di gala e questa affermazione fa intuire che i problemi sopraggiungeranno copiosi. Ovviamente reagiranno meglio le Economie più strutturate, più efficienti, in una parola più produttive. E quelle, aggiungo, la cui protezione in termini di ammortizzatori sociali operativi e funzionanti, garantirà un passaggio meno traumatico dalla conservazione del posto di lavoro alle opportunità di nuovo lavoro.
La prima opzione, in qualche caso (invero, probabilmente non pochi) risulterà di non agevole perseguimento, mentre la reale praticabilità della seconda segnerà il discrimine fra il mantenimento senza scossoni del contratto sociale e della pacifica convivenza ovvero la comparsa di un malcontento diffuso e, forse, dirompente.
Domandiamoci: noi, come ci presentiamo a questo appuntamento? È di questi giorni il sorgere della protesta in alcune fabbriche del Paese, soprattutto nel comparto automotive ma non solo, per la comunicazione da parte aziendale dell’avvio delle procedure di licenziamento. Ai lavoratori coinvolti va la mia solidarietà e la dolorosa comprensione per lo stato di disagio in cui a breve si troveranno le loro famiglie. Ma onestà intellettuale impone che, oltre a ciò, si analizzino in profondità le cause di questi spiacevoli eventi. Si esca dalla tentazione di rappresentare la situazione, in termini un po’ macchiettistici, come la contrapposizione fra buoni e cattivi, ignorando che la realtà spesso è più complessa e non può prescindere da quell’insieme di regole che si è soliti definire “Mercato”.
Ad esempio, ogni serio argomentare deve partire da un dato di fatto: siamo in presenza di una ristrutturazione planetaria del settore della componentistica per auto, che fra gli altri effetti comporta l’internalizzazione della produzione dei componenti. Molte delle aziende coinvolte dall’ondata di licenziamenti operano in questo contesto ed il fenomeno riguarda tutti gli Stati.
Altro nodo, spesso a torto sottaciuto, riguarda il trend della produttività del nostro sistema economico e le conseguenti scelte che fanno le imprese, nazionali o multinazionali che siano, con riferimento a questo importante parametro di efficienza. Un dato per tutti. La produttività totale dei fattori (capitale e lavoro) per l’Italia non ha fatto registrare miglioramenti significativi nel periodo 1995-2019, ma con andamenti differenti nel corso degli anni. Tra il 2003 e il 2009 infatti è calata dello 0,8% annuo, mentre dal 2010 al 2014 è aumentata in media dello 0,6% e dello 0,4% negli anni seguenti. Il calo dello 0,5% registrato nel 2019 scaturisce da una variazione nulla del valore aggiunto a fronte di una variazione positiva (+0,5%) dell’impiego complessivo di capitale e del lavoro.
Cosa significa? Che, soprattutto nel 2019, abbiamo lavorato di più ma abbiamo lavorato peggio. Sempre con riferimento al periodo 1995-2019, EUROSTAT attesta che la produttività del lavoro italiano ha segnato una crescita media annua dello 0,3%, l’Ue a 28 un incremento dell’1,6%. Nell’Ue15 la variazione media annua è stata pari al +1,3% e al +1,2% nell’area Euro. Riguardo ai singoli Paesi i dati sono i seguenti: Francia +1,3%, Regno Unito +1,5% e Germania +1,3%. Per la Spagna il tasso di crescita (0,6%) è stato più basso della media europea ma più alto di quello dell’Italia.
I Mercati, e le imprese che vi operano, questi numeri li conoscono e forse dovrebbero essere oggetto di una profonda riflessione anche da noi, soprattutto da parte della classe politica e delle parti sociali. Proclami ad usum delphini, conditi da improbabili minacce di azioni risarcitorie pronunciati al solo scopo di placare le piazze, possono costituire un diversivo per un breve periodo ma purtroppo non aiutano a risolvere i problemi.