Ancora rimbomba il grido delle vittime: il Vajont è una ferita collettiva che non si rimargina. Articoli, film e libri custodiscono la memoria

Di: Sofia Boscagin

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Prima il fragore dell’onda
poi il silenzio della morte
mai l’oblio della memoria”

Queste parole, incise in una stele all’ingresso del cimitero delle Vittime del Vajont, rimbombano nel silenzio del camposanto di Fortogna, frazione di Longarone (BL), letto in cui riposano le vite delle quasi 2000 persone travolte nel disastro del Vajont, avvenuto il 9 ottobre 1963.

Il progetto, l’orgoglio, la distruzione

Dopo decenni di studi e progetti, nel 1957 si aprirono i cantieri e iniziarono i lavori volti a realizzare l’ambizioso progetto “Grande Vajont”, ideato dall’ing. Carlo Semenza e sviluppato dalla SADE (Società Adriatica di Elettricità). L’obiettivo era creare un lago artificiale in cui convogliare le acque dei bacini e dei torrenti limitrofi, sfruttandole per la produzione di energia idroelettrica destinata a tutto il Triveneto.

La diga, situata nella gola del torrente Vajont, fra la provincia di Belluno e di Pordenone, sarebbe stata la più alta del mondo: un capolavoro di ingegneria inserito in un paesaggio mozzafiato; un grande orgoglio per l’Italia intera.

In pochi anni è fatta: nel 1960 si conclusero i lavori della diga e i costruttori ne furono orgogliosi. Così orgogliosi da ignorare il monito della natura, che da tempo si ribellava all’intervento dell’uomo. Il terreno, infatti, era fragile e già negli anni Cinquanta si erano verificati crolli e frane minori. Nel 1959, una massiccia frana precipitò nel bacino di Pontesei: fu la prima grande avvisaglia del disastro. Il 4 novembre 1960, una nuova frana colpì proprio la diga del Vajont.

Si iniziò a preoccuparsi quando sul versante del Monte Toc — il cui nome, in friulano, significa “marcio” — si formò una grande crepa a forma di “M”. Gli esperti l’avevano capito: un’imponente frana stava per sopraggiungere. Questa volta, però, si cercò di intervenire: abbassando il livello dell’acqua nel bacino, la frana sembrava rallentare. In questo modo si rinviò il disastro, guadagnando tempo prezioso in cui si sarebbe potuto, almeno, evacuare la popolazione.

Solo Tina Merlin, giornalista e scrittrice bellunese, denunciò pubblicamente la situazione di pericolo — e per questo venne processata — pubblicando, nel 1961, un articolo su L’Unità in cui scrisse:

« Si era dunque nel giusto quando, raccogliendo le preoccupazioni della popolazione, si denunciava l’esistenza di un sicuro pericolo costituito dalla formazione del lago. E il pericolo diventa sempre più incombente. Sul luogo della frana il terreno continua a cedere, si sente un impressionante rumore di terra e sassi che continuano a precipitare. E le larghe fenditure sul terreno che abbracciano una superficie di interi chilometri non possono rendere certo tranquilli. »

L’ambizione culmina in distruzione

L’idea era buona, il progetto anche, e la diga, un capolavoro di ingegneria. Ma non c’è scusante: gli avvisi sono stati tanti, la natura è stata paziente, ma l’uomo non si è fermato. La sera del 9 ottobre 1963 l’orgoglio si frantuma: una frana si stacca dal Monte Toc e piomba nel lago artificiale generando un’onda che supera la diga e che, come una coperta, si stende sulla valle radendo al suolo Longarone, i comuni limitrofi e, estendendosi fino al lato opposto della diga, raggiunge Erto e Casso. Quella sera, nelle case di 2000 persone, le lancette degli orologi si fermano alle 22:39, per non ripartire più.

Dino Buzzati in un commovente articolo pubblicato sul Corriere della Sera e datato 11 ottobre 1963, scrive così:

“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.”

Tuttavia egli, nell’articolo, continua a considerare la diga come un bicchiere fatto “a regola d’arte” e il disastro, una vendetta da parte della “natura crudele”.

Gli anni dopo il disastro del Vajont

La mattina dopo l’Esercito Italiano, gli Alpini, i Vigili del Fuoco e numerosi volontari provenienti da tutto il Veneto e tutto il Friuli – Venezia Giulia, si recarono sul luogo per prestare soccorso. Molti di loro, tuttavia, rimasero traumatizzati e ne affrontarono le conseguenze per tutta la vita.

Nel 1971 furono condannati alcuni dei colpevoli e nel 2000 si concluse il processo: lo Stato, l’Enel e Montedison si impegnarono a pagare il risarcimento dei danni.
Nel 2008, nell’ambito dell'”Anno internazionale del pianeta Terra”, promosso dalle Nazioni Unite, il disastro del Vajont fu citato come esempio di “disastro evitabile” e “fallimento di ingegneri e geologi”. Nel 2023, l’Archivio del Processo Vajont è stato inserito nel Registro Internazionale del Programma UNESCOMemory of the World“.

La memoria del Vajont: cinema, teatro e letteratura

Come in ogni frangente, i media e le forme artistiche di espressione svolgono un ruolo fondamentale nel preservare la memoria degli eventi, offrendosi spesso come mezzo per elaborare eventi catastrofici e traumatici, come quello del Vajont.

Tra le opere che hanno alimentato il ricordo ci sono il celebre monologo teatrale di Marco Paolini, il libro della Merlin “Sulla pelle viva” e “Vajont: quelli del dopo” di Mauro Corona, testimone di quella tragica sera. Quest’ultimo compare anche nel film del 2001, “Vajont – La diga del disonore”, diretto da Renzo Martinelli.

Nel corso degli anni sono stati prodotti numerosi documentari come “Vajont – per non dimenticare” (2019) e “Vajont: una tragedia italiana” (2015).

In queste opere ancora rimbomba l’eco dell’onda che, nel 1963, ha trasformato la valle in un grande cimitero. Finché si dedica un po’ del proprio tempo al ricordo — come inciso nella stele di Fortogna — mai verrà “… l’oblio della memoria“.

9 ottobre 2025: il Vajont in TV

  • Il documentario “Voci del Vajont: 9 ottobre 1963” alle 15:25 su Rai storia
  • Il film “La diga del disonore” alle 21:10 su Rai Movie

In evidenza dettaglio della foto di Mauro Grazzi, da Unsplash.