Analisi teorico-pratica di uno degli slogan sindacali più discussi degli ultimi tempi: lavorare meno per lavorare tutti (o meglio)

Di: Andrea Panziera

LEGGI ANCHE: Lampi News – Il Paese dei coccodrilli

Chi non ricorda un celebre slogan sindacale di qualche anno fa: lavorare meno, lavorare tutti! L’intento implicito era evidente: aumentare i livelli occupazionali riducendo l’orario delle persone in attività e inserendo nei tempi in tal modo rivenienti altra manodopera senza impiego, da adibire alla medesima mansione. All’atto pratico, non si è andati aldilà della mera enunciazione del proposito, anche perché la sua concreta realizzabilità, in termini di non solo di sostenibilità economica per le aziende, ma anche di reale fattibilità operativa, era tutta da verificare. Qualche tempo fa una ONG neozelandese attiva nel settore finanziario, la 4 Day Week Global, si è fatta promotrice di un esperimento decisamente rivoluzionario, il cui intento dichiarato è quello di valutare l’ eventuale impatto, in termini di performances economiche aziendali, che potrebbero verificarsi in seguito alla riduzione della settimana lavorativa dagli attuali cinque a quattro giorni. Affinché questa sperimentazione potesse fornire dei riscontri probanti, era necessario coinvolgere un ampio e diversificato panel di imprese, appartenenti a differenti settori merceologici, nonché alcune eccellenze del mondo accademico. La prova, tuttora in corso in alcune realtà (in molte altre si è già conclusa) e della durata complessiva di 6 mesi , si è avvalsa tra gli altri della collaborazione di ricercatori delle Università di Oxford, Cambridge e Boston ed è stata condotta in diversi Paesi, tra cui Canada, Stati Uniti e Inghilterra. E’ bene chiarire un aspetto: non siamo in presenza del tentativo di spalmare le stesse ore di lavoro in un numero di giorni ridotto, bensì di analizzare le evidenze in termini di risultati aziendali complessivi, quindi di aumento della produttività reale degli addetti, in seguito al passaggio da 40 a 32 ore di lavoro settimanali, mantenendo invariata la remunerazione. In altre parole, i dipendenti ricevono il 100% della loro retribuzione, per l′80% del tempo , con il 100% del risultato rispetto alla prestazione precedente. L’idea di fondo da cui è scaturito l’esperimento è che le imprese, qualora adottassero questo modello, non subirebbero perdite significative di redditività mentre i lavoratori ne ricaverebbero benefici di varia natura, psicofisici in primis ma non solo. Riscontri? In circa il 70% dei casi in cui il periodo di test è stato concluso ed è stato fornito un feedback adeguato alla fine del processo, si registra il giudizio positivo, e convergente, di occupati e manager. In queste aziende con molta probabilità verrà mantenuto questo nuovo modello in quanto l’aumento di produttività è risultato addirittura superiore alle aspettative di base. Nel restante 30% i giudizi sono più articolati; si va dall’allungamento del periodo della prova, allo scopo di ottenere maggiori evidenze numeriche, fino alla sospensione della decisione definitiva per valutare con maggiore attenzione, anche in prospettiva futura, i pro e i contro indotti da questo cambiamento. Altra questione riguarda l’applicabilità, sic et simpliciter, di questo processo in tutti i settori merceologici ed in presenza di differenti dimensioni delle imprese coinvolte. E’ probabile che in molte realtà l’invarianza degli obiettivi possa essere raggiunta solo con il deciso rafforzamento della dotazione tecnologica e con il conseguente riallineamento formativo delle maestranze, ma è fuor di dubbio che siamo di fronte alla creazione di una moderna filosofia del rapporto di lavoro che cerca di stabilire un nuovo punto di equilibrio fra la sfera individuale e il mantenimento di condizioni di efficienza ed efficacia produttiva.