Dal ricordo di un vecchio parquet al vertice di Anchorage: il summit che ha dato prestigio a Putin senza avvicinare di un passo la pace

Di: Andrea Panziera

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Milano, prima metà degli anni ’70, domenica pomeriggio. All’epoca giocavo nelle giovanili della seconda squadra di basket della città, la “all’Onestà”, che prendeva il nome dall’omonima catena di negozi di abbigliamento, casalinghi e giocattoli. Come da prassi, assieme ai miei compagni si andava al Palalido a tifare per la nostra società, fra le quattro – cinque compagini più forti del massimo campionato. Il pivot era Enrico Bovone, un perticone di 2 metri e dieci, con una buona carriera prima e dopo quell’esperienza, anche in nazionale.

Questo ricordo si collega ad un epiteto, non proprio educato, che molti supporter avversari erano soliti riservargli, per farlo innervosire, forse conoscendo il suo carattere serioso ed un po’ introverso: “Bovone, lungo e c……e. Ebbene, gli sviluppi dello storico (sic!) incontro fra Trump e Putin, peraltro ampiamente prevedibili anche da un modesto pubblicista come il sottoscritto, per qualche attimo hanno avuto il potere di far tornare nella mente quello slogan, con l’unica variante del “grosso” al posto del “lungo”.

Tutti i commentatori non in malafede o prezzolati, hanno infatti ricavato la medesima conclusione: l’unico effetto pratico del summit è stata la pubblica riabilitazione a livello planetario di un piccolo autocrate criminale, il cui solo obiettivo è quello di ricreare i presunti fasti imperiali dell’ex Unione Sovietica, con gli stessi metodi, inclusi quelli criminali, sfruttando le debolezze o le connivenze delle democrazie occidentali.

L’unica domanda sensata che ha senso porsi dopo la squallida sceneggiata di Anchorage è se il mentalmente instabile presidente USA e il suo delinquenziale omologo moscovita avessero concordato prima la sceneggiatura, ovvero se si sia trattato di una recita a soggetto, dove al bolso tycoon è stata affidata la parte riservata a Walter Chiari nei fratelli De Rege.

Il dubbio è più che lecito, a motivo dell’enorme conflitto di interessi che da sempre lega Trump con l’oscuro sottobosco affaristico russo. Tranquilli, nessuno indagherà e le minacciate sanzioni del CEO della Casa Bianca nei confronti dei sodali moscoviti non vedranno mai la luce, se non in forme ed effetti “ad usum delphini” .

Il platinato posticci crinito business man a stelle e strisce è ora molto più impegnato a occuparsi di modificare le leggi elettorali dei vari Statti dell’Unione pro domo sua, a inventare situazioni d’ emergenza dell’ordine pubblico nelle varie città americane, smentite dai numeri, ad attuare pesanti ritorsioni commerciali contro i pochi sistemi democratici esistenti sul pianeta Terra, a lottare disperatamente con le sue bugie e le sue azioni quotidiane per ottenere un premio Nobel per la Pace che non gli darebbe neanche una giuria composta da Hitler, Stalin e Pol Pot.

Il sedicente Pacificatore si è inventato ben sei interventi con i quali avrebbe messo fine a conflitti fra Stati. “Io non ottengo il cessate il fuoco, ma direttamente la pace”. Come a dire che lui non sta trattando con Russia e Ucraina per raggiungere una tregua effimera, ma la fine permanente delle ostilità. Dei boccaloni che ci credono parleremo più avanti, ma forse non è inutile rimarcare che è stato sbugiardato in primis dai diretti interessati, ma soprattutto dalle verità oggettive.

Il quotidiano inglese Guardian sottolinea che questa vanteria, come molte altre proferite dal capo della Casa Bianca, risulta destituita di ogni fondamento. La presunta fine delle ostilità fra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo, mediata anche dagli USA, è di fatto naufragata in quanto le trattative nel Qatar sono al momento in stallo.

Che Trump abbia avuto una qualche parte attiva nel cessate il fuoco fra India e Pakistan è negato dalle parti in causa. Lo stesso discorso vale per la disputa sullo sfruttamento delle acque del Nilo fra Egitto ed Etiopia. La Serbia ha smentito di voler intraprendere una azione militare contro il Kosovo, intento che sarebbe stato sventato dalla moral suasion USA.

Stesso scenario nella breve contesa armata sui confini che ha coinvolto Thailanda e Cambogia; la prima non ha mai risposto alle sollecitazioni di Washington, il cui ruolo è stato del tutto analogo a quello svolto da altri Stati. Infine, il conflitto fra Israele ed Iran. Esiste qualche persona di buon senso la quale possa affermare che i due Paesi abbiano definitivamente abbandonato l’idea di bombardarsi a vicenda?

I presunti danni definitivi inferti dall’attacco USA alle centrali nucleari iraniane sono stati messi in dubbio persino dai media statunitensi e nessuna trattativa è stata mai avviata e finanche pensata dalle parti in causa. Lo “storico” meeting di Anchorage, come da presupposti, svolgimento e conclusioni, non ha spostato di un centimetro il baricentro del conflitto russo – ucraino verso la pace; ora siamo al paradosso che l’aggressore, con pretesti risibili e accuse inverosimili, incolpa l’Europa di essere l’ostacolo principale al raggiungimento dell’accordo, ossia alla capitolazione dell’aggredito con conseguente suo smembramento territoriale.

Bisogna rimuovere le cause profonde del conflitto: questo è il mantra che dal Cremlino si leva con litanica monotonia. A tutti coloro i quali si abbeverano con questa teoria inventata, condita da insulti e accuse feroci verso la dirigenza di Kiev, rinnovo caldamente l’invito di rileggersi la storia, non quella propinata da qualche tribuno ignorante, probabilmente prezzolato, o da alcuni pseudo esperti di geopolitica.

Ebbene, nel 1994 fu siglato un accordo, noto come Memorandum di Budapest, dal nome del luogo in cui fu sottoscritto, che stabiliva precise garanzie di sicurezza e di integrità territoriale a favore dell’Ucraina in cambio della sua adesione al trattato di non proliferazione delle armi nucleari. I firmatari erano l’Ucraina stessa, la Russia, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. In cambio, Kiev si impegnava a consegnare le armi nucleari presenti sul suo territorio dopo l’implosione dell’URSS.

Tale trattato è stato violato da Mosca una prima volta nel 2014, invadendo la Crimea e successivamente nel 2022. Questa è la realtà storica e tutto il resto sono fandonie, distorsioni della realtà o, più verosimilmente, idiozie gratuite o ben remunerate. È di queste ore la polemica fra un nostro vice presidente del Consiglio e la Francia, che fa seguito a posizioni ambigue bipartisan sulla natura della guerra e sui modi per porvi fine.

Se gli accordi internazionali hanno ancora un senso, USA e Gran Bretagna, garanti di quello sottoscritto nel 1994, avrebbero il dovere di intervenire in aiuto della parte aggredita; ma allo stesso tempo, tutti i Paesi che condividono la medesima concezione della Stato di Diritto, non potrebbero esimersi dall’assumere posizioni analoghe, nelle forme e nei modi più efficaci per ottenere il medesimo risultato.

Nella realtà, questa logica difficilmente rinnegabile è condivisa da pochi interpreti, mentre le posizioni prevalenti assomigliano a dei ghirigori retorici pieni di doppi sensi dialettici e politici, che aldilà di cavilli ed artifici rispecchiano una posizione di fatto plasmata su quella della Casa Bianca e del Cremlino: la pace si otterrà non quando finirà la guerra della Russia, ma la resistenza opposta dall’Ucraina, la cui disgregazione politico-territoriale è da considerarsi il prezzo da pagare per la concordia globale.

Non traggano in inganno alcune prese di posizione emerse in questi ultimi giorni, che parlano di estensione dell’art. 5 del Trattato NATO da applicare anche nei confronti di Kiev, con tanto di diritto di primogenitura vantato dal nostro Paese. In primis, la sua lettura evidenzia che neanche per i Paesi parte dell’Alleanza, qualora aggrediti, esso implica un obbligo di impegno militare da parte degli altri Paesi membri.

Recito testualmente: ciascun Stato membro assisterà quello attaccato «intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata». Ciò significa che potrà mandare a sua discrezione soldati, armi o semplici messaggi di condanna. Nel concreto, la proposta italiana è ancora meno credibile, per due motivi.

Primo, in quanto è avanzata da un Paese che ha escluso e continua a escludere un impegno militare diretto in difesa dell’Ucraina, attestando che l’articolo cinque è di per sé una garanzia di cartapesta, che non vincola neppure chi lo propone, secondo la logica “dell’armiamoci e partite”.

Secondo, perché esso viene indicato come vera alternativa alla cosiddetta coalizione dei volenterosi, cioè all’idea di un gruppo di Paesi disponibili a un impegno sul campo. Porre fine a questa guerra è stata, fin da subito, una questione di volontà politica. Quali fossero le vere intenzioni di Russia e Ucraina era evidente; neoimperialiste le prime, filo occidentali con una visione sulla UE le seconde. Fino all’elezione di Trump erano chiare, anche se piuttosto ondivaghe e decisamente titubanti, quelle dell’ Europa e di tutto il mondo occidentale, condizionate dall’idea di non umiliare la Russia in una guerra che non doveva vincere, ma neppure perdere, per non generare reazioni a cascata nei Paesi dell’ex impero sovietico.

Dopo l’elezione di Trump, la direzione di marcia americana non si discosta di molto da quella russa. In questa situazione, ogni decisione che serva a compiacere Trump affinché lui continui a blandire Putin, con l’unico obiettivo di limitare i danni per il popolo ucraino, non serve a raggiungere una pace giusta e duratura, ma conduce ad accordi precari che da qui a pochi anni saranno carta straccia. Questa è l’amara realtà e sfido a dimostrare il contrario, non a parole ma con prove oggettive e verificabili.