Ulpiano fu uno dei principali artefici della giurisprudenza romana a cavallo fra il I e il II secolo dopo Cristo. Perché chiamarlo in causa oggi?
Di: Andrea Panziera
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Probabilmente molti lettori si domanderanno cosa mai sia accaduto a questo Ulpiano, ovvero se trattasi di una amena località sita in qualche angolo delle Dolomiti o in altre zone montane del Belpaese. Sicuramente, chi ha dimestichezza con le più basilari nozioni di diritto, di fronte a tale amletico quesito si farà una crassa risata e immediatamente risponderà che non di un paese o di una persona qualsiasi stiamo parlando, bensì di uno dei principali artefici della giurisprudenza romana del suo tempo, a cavallo fra il primo ed il secondo secolo dopo Cristo. Si occupò di Diritto amministrativo e di Diritto civile, lasciandoci in eredità una serie di scritti che ancor oggi rappresentano un prezioso riferimento nonché materia di studio per la Disciplina giuridica moderna. Non era nato a Roma bensì in Siria, allora provincia dell’Impero; tra i suoi tanti meriti, vi fu quello di por fine alle nefandezze finanziarie perpetrate dalle consorterie affaristiche dell’epoca e per questo motivo, assieme a importanti riconoscimenti e cariche pubbliche, attirò su di sé l’ira e l’ostilità di coloro ai quali aveva impedito la prosecuzione delle private scorrerie in danno dell’Erario. Ai giorni nostri lo definiremmo un fautore dell’Austerity, ma semplicemente era promotore di una Pubblica Amministrazione efficiente ed oculata. Ho pensato a lui dopo aver seguito in questi giorni con molta attenzione la vicenda del MES, conclusasi come ormai noto con la bocciatura della sua ratifica, decisa da una variegata maggioranza in Parlamento. Ma quale sarebbe il collegamento con Ulpiano? Gli storici sono pressoché concordi nell’attribuire a lui un detto divenuto in seguito assai famoso: “Pacta sunt servanda”, ovverosia “gli accordi vanno sempre rispettati”. Nel merito di questa vicenda, più che le parole del vostro scriba, hanno un peso di certo maggiore quelle di Lorenzo Bini Smaghi, economista e banchiere di fama internazionale, già nel Consiglio della Bce e ad oggi Presidente di Societé Générale, che così chiosa: «L’Unione europea si fonda soprattutto sulla fiducia negli impegni presi e sottoscritti. L’accordo sul MES era stato firmato dal governo Conte 1. Ora, il M5S e la Lega, che sostenevano quel governo, votano contro la ratifica. Poi il governo Meloni aveva annunciato che essa avrebbe fatto parte di un pacchetto, abilmente confezionato con la riforma del Patto di Stabilità, ma alla fine si è firmato quest’ultimo e non il MES. Il danno principale è stato inferto all’affidabilità del Paese». E ancora: “Se ci si mette nei panni dei nostri partner europei non si può che rimanere sconcertati. Anche perché nel negoziato sul MES alcuni avevano accettato il compromesso partendo da posizioni molto diverse dalle nostre. Ora il rischio è che si riducano i nostri margini negoziali su altri importanti dossier , perché le nostre controparti non si fidano più dell’Italia». E a proposito delle affermazioni di qualche leader politico, secondo il quale il MES serviva solo alle banche di altri Stati, in primis quelle tedesche messe molto peggio delle nostre, Bini Smaghi precisa: «Quando si scatena una crisi finanziaria di portata globale la solidità dei sistemi bancari nazionali è strettamente legata a quella delle rispettive finanze pubbliche. Lo si è visto nel 2011. Non è un caso che il rating delle varie banche europee rifletta in gran parte quello dei rispettivi debiti sovrani. Per questo motivo è necessario uno schema europeo, che non lasci i singoli Paesi alla mercè del contagio. Non rendersene conto, con tutto quello che è successo dopo la crisi finanziaria del 2008 è veramente sorprendente». Condivido al 100% il pensiero di Bini Smaghi, che peraltro ricalca fedelmente il sentiment che circola non solo all’interno delle varie Cancellerie europee, dal momento che siamo l’unica Nazione a non aver ratificato il trattato, ma anche nelle sale operative dei più importanti intermediari finanziari. L’ obiezione semplicistica che in queste ore si sente ripetere come un mantra da molti esponenti politici, cioè che i Mercati non hanno reagito in alcun modo a questa nostra decisione ed anzi lo spread fra i nostri BTP ed il Bund si sia ulteriormente abbassato, è vera. Ma questa affermazione è ahimè tipica di coloro i quali hanno poca dimestichezza con le logiche e la prassi che adottano gli operatori: la loro memoria è molto capiente nonché duratura e per colpire aspettano il momento più propizio, quando la controparte designata si trova in una situazione di palese difficoltà e dispone di poche frecce nella faretra. Ed in quel momento affondano i colpi senza pietà. Non dimentichiamoci che da qui in avanti ogni anno scadranno oltre 300 miliardi di euro di titoli del nostro Debito Pubblico che dovranno giocoforza essere rinnovati, poco meno del 30% dei quali è in mano ad Intermediari esteri. Certo, l’Italia è un Paese con una quota assai elevata di risparmio privato e le politiche di incentivazione poste in essere per la sempre più massiccia sottoscrizione di titoli di Stato hanno avuto un discreto successo. Questa spinta al “soldo alla Patria” può però continuare soltanto nella misura in cui la percezione del rischio da parte degli investitori, in primis quelli istituzionali, rimarrà improntata ad una sensazione di fiducia nella capacità di chi governa di tenere i Conti pubblici in una condizione di sostenibilità; ma ciò dipenderà anche da come evolverà la congiuntura internazionale, dal tasso di crescita della nostra economia e dalla adeguata disponibilità delle risorse necessarie per alimentarla. Spero di sbagliarmi, ma in tutte le numerose partite ancora aperte con i nostri partner europei, PNRR, condivisione delle problematiche legate alla gestione dei flussi migratori, fino alla rigida applicazione delle regole del Nuovo Patto di Stabilità, ho la netta sensazione che non ci saranno margini di flessibilità trattabili e possibili, con tutte le conseguenze che ciò inevitabilmente comporta. E purtroppo, alla luce delle previsioni sul PIL dei prossimi due anni appena pubblicate da alcuni importanti e credibili Istituti di ricerca, che prevedono aumenti della nostra ricchezza nazionale di gran lunga inferiori all’1%, questo rischia di costituire un problema molto serio, potenzialmente in grado di fare carta straccia di tutte le professioni di ottimismo sparse in questi giorni a piene mani. Con una ulteriore postilla, che aggiungerebbe la beffa al quasi certo danno. Non va infatti escluso che, trattandosi non di un Trattato bensì di una libera Intesa fra Esecutivi, i ratificatori, cioè tutti i Paesi che adottano l’euro aderenti al MES fuorché l’Italia, possano procedere a prescindere, escludendoci dal meccanismo di salvaguardia in caso di bisogno. La morale di questa vicenda, aldilà degli ulteriori e ora imprevedibili futuri sviluppi, appare in ogni evidenza agli occhi di tutti: i c.d. moderati nella attuale maggioranza di Governo contano meno del due di briscola e le dimensioni del campo largo dell’opposizione arrivano a stento a quelle di un modesto oratorio. Come viatico per i prossimi mesi non mi sembra proprio il massimo, ma come soleva dire il Magnifico, “chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza”. Buon 2024 a tutti i lettori!