La parola “rassegnazione” dev’essere bandita dal vocabolario dell’imprenditore. Dove non c’è spazio per la rinuncia, ma solo per l’analisi critica

Di: Andrea Panziera

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Una delle prime cose che dico agli studenti all’inizio delle mie lezioni di Economia o Marketing è che in qualsiasi attività la parola “rassegnazione” deve essere bandita dal vocabolario dell’imprenditore. Non solo perché il termine, da qualsiasi parte lo si giri, suona come rinuncia ad un progetto e quindi emana l’odore della sconfitta; magari non un fallimento in senso stretto, ma quasi sempre un mesto abbandono del medesimo per manifesta incapacità di proseguire in modo economicamente sostenibile. Ma soprattutto in quanto, nella maggior parte dei casi, il problema non è l’obsolescenza del prodotto dell’azienda ovvero la drastica contrazione della sua domanda da parte della platea dei consumatori, bensì un evento esogeno che mina tutte le certezze di un business diventato abitudinario. Invero in tutti i mercati non di rado si manifesta l’insorgere di difficoltà di vario tipo, in qualche caso ad impatto assai significativo sulla redditività, ma spesso temporanee e contingenti. Questi accadimenti avversi, pur nelle loro conseguenze assai onerose sul conto economico dei soggetti colpiti nonché su convinzioni operative mai messe in discussione per decenni, dovrebbero costituire l’occasione per un esame critico dell’idea e della prassi imprenditoriale, stimolando un’ analisi critica delle stesse, il cui risultato potrebbe rappresentare la soluzione, parziale o totale, delle sopravvenute criticità di cui sopra. Questo cappello introduttivo prende spunto da quanto sta accadendo nelle nostre campagne nelle ultime settimane, da quando è iniziata la raccolta della frutta, nessuna tipologia e varietà esclusa. Giusto in questi giorni uno dei più importanti quotidiani locali ha riportato la vicenda di un produttore polesano, il quale dopo decenni di coltivazione di susine ha deciso di tagliare tutte le sue piante di prugne precoci (circa 3 ettari) perché il prezzo offerto per la sua merce è stato irrisorio. Quello che mi ha lasciato basito è una sua affermazione: “E’ finita un’epoca per questi frutti …” Ebbene, nelle statistiche ufficiali, sia nazionali che estere, non c’è traccia alcuna della disaffezione dei consumatori per questo prodotto. Ma c’è dell’altro. Il nostro rafforza la sua scelta con altre argomentazioni, parimenti non riscontrabili riguardo ai riscontri numerici: “La gente acquista pane, carne e formaggi, ma il resto viene considerato un di più ….. Alla cooperativa (di cui l’agricoltore è socio), tra costo trasporto, celle frigorifero, lavorazione, imballaggi e trasporto ai supermercati, la susina costa 48-50 centesimi al chilo. La grande distribuzione non le paga più di 52, che è il prezzo con cui compra quelle della Spagna. Avendo ricevuto una proposta di vendita di soli tre centesimi al chilo, ho deciso di non raccoglierle”. Alcune osservazioni. Le statistiche del 2021 e quelle dei primi sei mesi 2022, in merito al consumo alimentare, non vedono alcun crollo dell’ortofrutta rispetto agli altri beni, sia in generale che nei singoli prodotti. La siccità prima e la guerra poi hanno certo impattato non poco sulla struttura dei costi. Ma questo è vero anche per la Spagna e per gli altri competitor comunitari. Ammesso e non concesso che le GDO nazionali paghino alla produzione il prodotto lavorato e confezionato meno di un terzo del loro prezzo finale di vendita, come riescono le cooperative/aziende iberiche a rimanere sul mercato cedendolo a quei valori? In realtà, il racconto del coltivatore del Polesine trova triste conferma nella visione che ogni abitante della Bassa veronese trova davanti ai suoi occhi qualora si avventuri nelle campagne dove sono presenti piantagioni di pomacee. Lungo i filari giacciono distese di mele gialle, rosse e verdi, una sorta di tappeto tricolore in parte già in avanzato stato di marcescenza, il cui destino fa a pugni con il prezzo al kg di tutti i supermercati, di rado inferiore all’ 1,50 €. Una pacata riflessione ed una domanda. La situazione esterna (aumento dei costi energetici con tutti gli annessi e connessi) era nota a tutti da almeno 4 mesi, così come il presumibile impatto sui costi di conservazione. Possibile che a nessuno sia venuto a mente di organizzare per tempo dei canali di vendita alternativi? Quante famiglie, se informate in tempo tramite i canali social, mailing, altre azioni di contact marketing, avrebbero risposto positivamente alla chiamata, scegliendo e acquistando direttamente sul campo le mele ad un terzo del valore proposto dalla GDO? Quante , se residenti in luoghi più distanti, le avrebbero ordinate per una consegna a domicilio? Forse, anzi sicuramente, non si sarebbero vendute tutte, ma la perdita sarebbe stata in ogni caso minore. L’alternativa non può essere quella di assistere attoniti allo scempio attuale, con i consumatori che continueranno a pagare per tutto l’autunno e l’inverno le mele, probabilmente provenienti dall’estero 1,5€ al kg? L’economia, il marketing, l’efficiente conduzione di un’impresa presuppongono un’analisi del contesto, la previsione della sua evoluzione e di conseguenza un’ adeguata e tempestiva programmazione delle azioni da intraprendere. I mercati moderni evolvono in modo assai rapido e bisogna possedere e maneggiare tutti gli strumenti per farvi fronte in modo efficace. Se la velocità del cambiamento è quella dei jet, non è possibile pensare e decidere mantenendo la tempistica del calesse. E non appare una soluzione ragionevole quella di assumere decisioni estreme, autodistruttive. Per certi versi ricordano la reazione del marito tradito, che per dispetto alla moglie compie un gesto di autolesionismo estremo. L’imitazione del Depardieu d’antan non procura benefici alle aziende ed ai consumatori ma fa solo il gioco della concorrenza, in primis di quella estera.