La stretta attuata dalla BCE la settimana scorsa sui tassi è preveggente di una Banca Centrale al centro dell’economia di mercato

Di: Fabio Michettoni

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La stretta senza precedenti attuata dalla BCE la settimana scorsa sui tassi, alzati dello 0,75%, è preveggente di una Banca Centrale al centro dell’economia di mercato per i prossimi mesi, se non addirittura anni. Ovviamente quest’azione di stretta monetaria si è riflessa sui mercati valutari.

Le valute hanno avuto un anno particolarmente volatile, con il dollaro salito del 14%, l’euro e lo yen scesi invece ai minimi degli ultimi venti anni, mentre i mercati obbligazionari potrebbero essere destinati a soffrire ancora, perché è troppo presto per andare a caccia di occasioni nel reddito fisso e perché il dollaro è sulla buona strada per chiudere il suo anno migliore di sempre.

Per quello che riguarda la visione d’insieme dell’economia globale, l’idea che adesso si sta facendo avanti è quella di un sistema macroeconomico globale completamente nuovo. Se c’è inflazione, le banche centrali non possono avere una politica facile; il loro compito è e sarà quello di attuare una policy molto rigida.

Tutti siamo stati abituati all’assenza di inflazione, per 20-30 anni. Ora invece l’inflazione c’è ed è pervasiva. Pensavamo che il peggio fosse passato, che si fosse arrivati al picco dell’inflazione e invece l’ultima lettura dell’indice dei prezzi al consumo degli Stati Uniti (aumentato dell’8,3% ad agosto rispetto al livello dell’anno precedente) ha dimostrato che non è così.

Per quanto riguarda il mercato azionario, abbiamo assistito al più grande movimento mai registrato su un dato economico, dopo la pubblicazione dell’IPC di agosto. Un movimento di quattro deviazioni standard, tenendo conto che tutti e tre i maggiori indici USA sono scesi ben oltre il 4%.

Gli operatori non riescono ad abituarsi all’idea che l’inflazione non durerà un paio di mesi, ma ci sono i presupposti perché perduri almeno un paio di anni. I dati dell’IPC di agosto hanno mostrato che, anche se i prezzi del gas stanno scendendo, (ieri, alla ripresa dei mercati, era quotato 188 dollari a megawattora) e le materie prime sono diminuite, i prezzi dei beni sono ancora in aumento, per cui l’inflazione è di ampia portata.

Questo è il mantra e le banche centrali faranno di tutto per circoscriverla.

Si capisce bene che non c’è traccia di nessun elemento a favore di uno scenario di fondo ottimistico e questo procedere dei mercati azionari per fasi estreme, cioè alternando eccessi di BID e ASK con sorprendente regolarità, potrebbe cedere lasciando il dominio definitivo di une delle due parti. Verosimile che a cedere sarà il lato long che, al momento, su certi livelli, fa capire che volumi ancora ce ne sono.

Ma perché questo ritardo nell’intraprendere una definitiva direzionalità? Perché gli operatori istituzionali non si fidano innanzi tutto del parere delle banche centrali, ma anche delle azioni messe a terra. Secondo noi di Volcharts a torto, perché se anche la BCE si è messa in scia, quanto ad aggressività, alla FED, si capisce bene come le Banche Centrali intendano fare sul serio nel combattere l’inflazione, stabilendo, o più precisamente allargando, di fatto il trade off tra azione e reazione, con contestuale e repentino aumento della volatilità.

A questo punto si impone una domanda: qual è il rischio maggiore che corrono i mercati? Che la Federal Reserve continui ad alzare i tassi di interesse anche oltre il 3,75% previsto per febbraio 2023 e se la Fed dovesse continuare a far salire i tassi l’anno prossimo sarebbe uno shock totale per i mercati, per cui sarebbe quantomeno opportuno che gli investitori si preparino a movimenti più drastici, al momento inattesi e posti sulla coda sinistra della distribuzione log-normale dei rendimento dell’SP500.

Certo che non torneremo molto presto al 2019-2020. Storicamente, ogni volta che l’economia si è trovata in difficoltà, ci sono stati strumenti di emergenza, tassi a zero e misure di sostegno. Questa volta la situazione è più complicata e potrebbero esserci dei fallimenti. Non ci sono reti di sicurezza di politica monetaria. D’altro canto, gli investitori potrebbero non dover o voler essere solo lunghi di Azioni o di Bond, preferendo in assoluto la liquidità e forse questo sarà l’assetto da preferire per diversi mesi, anche perché sarebbe già possibile acquistare buoni del Tesoro con un rendimento del 3%, di misura superiore ai livelli di inflazione attesa, ma potrebbe anche prevalere una certa prudenza per non andare LONG di Bond troppo presto, perché al momento sono più le ipotesi che il rialzo dei tassi continui, piuttosto che ci sia una frenata di questa stretta aggressiva.

Infine, il Dollaro USA, che merita una considerazione particolare. Il dollaro viene usato perché viene usato, o almeno così dice il mantra del generale consenso, ma oltre l’apparente logica, può essere utile pensare al dollaro come ha fatto Robert Triffin, un economista del secolo scorso. In effetti, egli pensava che ci fossero due dollari inglobati in uno. Il primo dollaro è destinato all’uso interno. Il secondo per uso internazionale. Questo, a sua volta, significa che il numero di dollari esistenti è sempre proiettato in due direzioni.

L’America è, per definizione, più piccola del mondo. Pertanto, il numero di dollari necessari all’economia americana (la prima direzione) è inferiore a quello necessario all’economia globale (la seconda). Eppure, entrambe utilizzano lo stesso dollaro. Triffin ha quindi posto un dilemma. Se la moneta americana serve l’economia globale, con una massiccia liquidità in dollari, si corre il rischio a lungo termine di una spirale iperinflattiva in patria. Troppi dollari. A quel punto, il resto del mondo abbandonerebbe il biglietto verde. Ma se l’America serve solo l’economia interna ed emette molti meno dollari, si corre il rischio di una iperdeflazione all’estero. Troppi pochi dollari. A questo punto, il resto del mondo, abbandonerebbe il biglietto verde. In ogni caso, la supremazia del dollaro rischia di cessare.

Sullo scenario internazionale non ci sono al momento delle prove provate di queste ipotesi. A prescindere dal livello di offerta, tutti vogliono il dollaro, il che spiega la visione rialzista della divisa americana. Ma comunque degli elementi di rischio penalizzanti il dollaro se ne vedono. L’inflazione annuale negli Stati Uniti è preoccupante, pari all’8,3% in agosto e le banche centrali estere stanno diversificando le loro riserve, sganciandole parzialmente da dollaro. La pressione sulle criptovalute non smette di insistere sulle alternative al dollaro e gli Stati Uniti hanno di fatto cacciato la Russia dal sistema dollaro centrico.

Nessuna di queste cose, di per sé, minaccia ancora il dominio del dollaro, ma la tesi nascente dell’eccesso di offerta di dollari sta ovviamente attraversando il pianeta, facendo emergere una sorta di eterodossia che indica il crescente debito degli Stati Uniti e l’inevitabile declino delle superpotenze finanziarie, come indizi di un mondo post-dollaro.