La laurea record di Federica mette in luce la gara dei giovani con una società che non aspetta nessuno. Una rincorsa alle aspettative che costa cara in termini di salute psicologica
Di: Messhua Franch
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Qualche tempo fa, i giornali italiani hanno dedicato un paio di colonne all’impresa di Federica, la studentessa che ha battuto qualsiasi record, conseguendo una laurea in Giurisprudenza in poco più di 3 anni. Questo ha affermato la ragazza, intervistata da Repubblica: “Ho capitalizzato l’anno della pandemia: nel 2020, chiusa in casa, invece di deprimermi ho fatto ben 12 esami”.
Sicuramente lodevole l’impegno della neolaureata, che ha saputo concentrare tempo ed energie sui libri. Tuttavia, occorre incentivare una riflessione su queste “gare accademiche”, da molti ritenute ben altro che sane competizioni.
L’anno appena trascorso è stato difficile per tutti, anche per i giovani. Sul fronte dell’istruzione, studenti e studentesse si sono visti stravolgere le lezioni e, talvolta, annullare gli esami a metà anno accademico. Sono stati tantissimi i problemi, di ogni forma e tipologia, e alcuni tra questi hanno irrimediabilmente condotto all’insorgere di disagi sociali e psicologici. Se a quelli logistici non è stato semplice “mettere una toppa”, pur riuscendo a improvvisare una didattica a distanza, quelli di tipo emotivo sono aumentati vertiginosamente, soprattutto fra i giovani.
I dati del disagio sociale giovanile
Una ricerca condotta dal dipartimento di Scienze Biomediche di Humanitas University ha segnalato un dato significativo. Per quanto riguarda i giovani, il 70% circa degli studenti ha dichiarato una sensibile diminuzione della concentrazione nello studio. Insieme, un’altra ricerca della Columbia University sulla popolazione europea ha stimato un aumento del 15% dei casi di isolamento sociale, ansia e depressione.
Tale percentuale tocca maggiormente proprio la fascia d’età 15-25 anni, ovvero coloro che, con la chiusura di scuole superiori e università, hanno assistito a un cambiamento radicale della propria vita. Questo, non dimentichiamolo, oltre agli effetti già noti della crisi dell’occupazione e della negata possibilità di entrare nel mondo del lavoro.
D’altronde, non è facile accontentare le pretese di una società del XXI secolo che vuole tutto e subito, dando in cambio ben poco. Se poi aggiungiamo la pandemia, il lockdown e una quasi totale assenza di interesse da parte dello Stato, è facile capire perché molti giovani siano andati incontro a simili problemi.
Non si tratta quindi di essersi lasciati andare, né si tratta di essersi abbandonati alla depressione. Come se, tra l’altro, soffrire di questa patologia fosse una scelta e non una condanna. Ciò di cui parliamo è una problematica ben più grave.
Una prospettiva diversa: a ciascuno il suo (tempo)
È necessario capire che scuola e università, così come la vita, non sono una gara a chi fa prima o a chi fa di più. Non si tratta di una corsa agli esami o ai voti, perché non sono quelli che definiscono una persona.
L’università è ben altro. È un modo per mettersi alla prova, affrontando difficoltà personali e paure e provando a superarle. È un modo per arricchire il proprio patrimonio culturale e le proprie competenze. Ed è un modo per prepararsi a un futuro lavorativo.
Tutto questo, però, ha bisogno di tempo per essere realizzato. Un tempo che è e deve essere assolutamente soggettivo. Tutti noi abbiamo obbiettivi da raggiungere e ostacoli da superare, ed è giusto che ognuno si prenda il (proprio) tempo per farlo.
Insomma, abbiamo diritto ad avere il tempo di capire quali sono le nostre aspirazioni e quand’è il momento per realizzarle e realizzarsi. Non è una scelta d’altri e nemmeno della società odierna, che corre sempre di più, giorno dopo giorno, lasciando indietro empatia, comprensione, umanità e consapevolezza.