A 35 anni dal disastro, Kiev si appella all’UNESCO perché Chernobyl diventi patrimonio dell’umanità. Un tributo alla memoria delle vittime
Di: Simone Massenz
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Un legame tra Chernobyl e il Covid-19? Per certi versi, c’è. C’è nella misura in cui si è disposti a leggere il passato per comprendere il presente. O, meglio, nella misura in cui si è disposti a sfruttare il passato per migliorare il presente. A sostenerlo è nientemeno che l’Organizzazione mondiale della sanità, come riportato da Antonella Scott: il mondo di oggi può trarre diverse lezioni da Chernobyl, in primis dal modo in cui, nel corso degli ultimi 35 anni, l’uomo ha tentato di far fronte alle conseguenze del più grande disastro nucleare mai provocato. Da lui stesso provocato.
Chernobyl: cos’è successo?
È il 26 aprile del 1986, ore 1:23:45 (UTC+4). Ci troviamo tra le mura della centrale nucleare di Chernobyl, nella Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. Poco più di 100 km a nord di Kiev, appresso al confine con la Bielorussia, e più precisamente nella municipalità di Pripyat. Per le strade, c’è vita.
Il personale della centrale sta effettuando un esperimento, tecnicamente un test di sicurezza. L’obiettivo è verificare se, in assenza di alimentazione esterna, la turbina accoppiata all’alternatore sia in grado di continuare a produrre energia e di alimentare le pompe di circolazione. Il tutto sfruttando l’inerzia del gruppo turbo-alternatore pur senza la produzione di vapore. Per raggiungere lo scopo, alcuni circuiti di emergenza vengono disabilitati. Il lasso di tempo da colmare tra l’interruzione della corrente e l’intervento del gruppo diesel di emergenza è 60 secondi. Scatta il timer.
Il reattore numero 4 esplode. A distanza di pochi secondi, un’altra esplosione. La prima si deve alla liberazione del vapore surriscaldato: la pressione è tale da far schizzare in aria “Elena”, il disco di copertura che chiude il cilindro entro cui sta il nocciolo del reattore. Oltre 1000 tonnellate di peso. Elena ricade verticalmente sull’apertura, lasciando il reattore scoperto. Ed ecco il secondo botto. Il volume impressionante di idrogeno e polvere di grafite liberato dal nocciolo, a contatto con l’aria, genera un’esplosione addirittura più potente della precedente. La copertura dell’edificio salta, la grafite si incendia. Nell’atmosfera, una nube di isotopi radioattivi.
Le esplosioni non sono nucleari, ma termochimiche: non si tratta di una reazione a catena di fissione – per intenderci, quella tipica delle bombe atomiche -, bensì del surriscaldamento del nocciolo. L’improvvisa perdita di controllo sulla reazione nucleare comporta un esponenziale incremento della temperatura e, di conseguenza, l’aumento di pressione del vapore dell’impianto di raffreddamento. Per di più, scattano e si innescano reazioni fra varie sostanze chimiche, inclusa la scissione dell’acqua in ossigeno e idrogeno, che incrementa ulteriormente i volumi di gas.
Cause e colpe
La responsabilità è interamente degli operatori dell’impianto. Perlomeno, è quanto scritto nel rapporto pubblicato dalle autorità nell’agosto 1986. Ma non è così. Un nuovo rapporto, nel 1991, evidenzia una grave debolezza di progettazione del reattore stesso. Al cosiddetto modello RBMK si riconosce in particolar modo un difetto nelle barre di controllo.
In un normale reattore nucleare, le barre di controllo, una volta inserite, hanno la funzione di ridurre la reazione. Ora, se si considera che nei reattori RBMK esse terminano con una “punta” (estensore) in grafite, e che la grafite, in quanto moderatore di neutroni, contribuisce non a ridurre la reazione, ma a incrementarla, cosa si ottiene? In fase di rientro, un aumento vertiginoso, seppur per pochi secondi, della temperatura.
Brjuchanov, Fomin, Akimov e Toptunov, gli operatori presenti a Chernobyl durante l’esperimento, non lo sanno. Minacciati di licenziamento dal vicecapo ingegnere Djatlov, dopo aver disattivato i sistemi di sicurezza del reattore, estraggono 205 su 211 barre di controllo. Il reattore diventa instabile, ma loro non ne sono consapevoli. A inizio esperimento, viene a crearsi un circolo vizioso: la temperatura dell’acqua, aumentando, accresce il vapore; il vapore accelera la reazione, generando calore; il calore, a propria volta, surriscalda ulteriormente l’acqua; e così via.
La temperatura sale rapidamente, tanto che gli operatori azionano il tasto AZ-5, eseguendo lo “SCRAM”, ovvero l’arresto di emergenza. Le barre, per rientrare, impiegano 18-20 secondi, un lasso di tempo minimo, ma sufficiente ad accelerare la velocità di reazione. La temperatura aumenta al punto da deformare i canali delle barre stesse, che si bloccano a circa un terzo del cammino.
La situazione è la seguente: le barre, a causa delle punte in grafite, accelerano costantemente la reazione, e la deformazione dei canali impedisce loro di scendere per arrestare la reazione stessa. A questo punto, il processo è irreversibile: non c’è modo di fermare la reazione né di abbassare la temperatura. L’orologio segna le 1:23:45 e, con la potenza del reattore a 33.000 MW termici, il mondo sta per assistere a uno spettacolo che mai ha visto e che mai, si spera, rivedrà.
Chernobyl oggi: patrimonio e memoria
Sono passati 35 anni da quella notte. Una notte le cui conseguenze, direttamente e indirettamente, hanno coinvolto milioni di persone in Europa. Oggi, adagiata sopra il reattore numero 4, una struttura alta circa 110 metri e lunga oltre 160, per un ammontare di 36mila tonnellate di materiale, fa da scudo a pressappoco 200 tonnellate di combustibile nucleare. Inoltre, nasconde il “sarcofago”, un involucro costruito nei mesi immediatamente successivi all’incidente.
Il governo ucraino desidera che la regione circostante la centrale, da quella notte desolata, ritorni a vivere. In occasione del 35° anniversario del disastro, Kiev rilancia la richiesta di includere Chernobyl tra i luoghi patrimonio per l’umanità protetti dall’UNESCO. Con un valore che nondimeno si spinge ben oltre il normale interesse culturale, scientifico e storico.
Da un lato, infatti, la centrale e la città fantasma di Pripyat sono da anni meta di un turismo alla ricerca di emozioni insolite e inusuali; dall’altro, Chernobyl non è solo il luogo del disastro, ma anche quello della memoria. La richiesta del governo ucraino si configura così come un tributo a quelle prime 31 vittime, tra operatori della centrale e vigili del fuoco, e alle migliaia di persone scomparse negli anni successivi. Perché se il loro numero è sconosciuto – di fatto, è impossibile da conoscere -, poco importa: a prescindere da quanti siano stati, erano nonni, genitori, figli, fratelli, amici; e non è certo a un numero che si dedica la memoria.