Un progetto, un libro, una storia vera, quella della cooperazione tra Italia e Cile: l’intervista a Tarcisio Benedetti, autore di “Alborada. La rotativa della libertà”
Di: Samuela Piccoli e Simone Massenz
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Alborada. La rotativa della libertà. Un libro, una storia vera. La storia di una cooperazione, anzitutto, quella tra Italia e Cile. Non solo: la storia di un progetto tanto complesso quanto rischioso, il progetto Alborada, che ha contribuito a restaurare la democrazia in Cile dopo la caduta della dittatura militare di Pinochet.
All’epoca gestito dalla ISCOS, ONG della CISL, il progetto Alborada prevedeva l’installazione di una grande tipografia per la stampa dei giornali di opposizione. Scritti, questi, che durante l’ultimo anno della dittatura, e al seguito di numerosi boicottaggi, riuscirono a sfuggire dall’ombra della censura e della manipolazione. L’acquisto di una nuova rotativa mise in marcia un centro stampa per quotidiani, le cui due principali testate, il “Fortin Mapocho” e “La Epoca”, giocarono un ruolo chiave per la caduta del regime.
A gestire il progetto Alborada fu Tarcisio Benedetti, nato nel 1947 a San Pietro in Cariano, Verona. Un uomo che, ad ora, ricorda con estrema chiarezza i quattro anni di permanenza in Cile, le difficoltà, le sfide affrontate.
Ma quella di Alborada è anche una storia tutt’altro che conosciuta. Una storia di cui pochi sono effettivamente al corrente. Ed è proprio questa la ragione che ci ha spinto a intervistare Tarcisio: da un lato, diffondere la conoscenza di ciò che deve essere conosciuto; dall’altro, mantenere viva la memoria di ciò che deve essere ricordato.
Perché in entrambi i casi si ottiene quanto di più utile possa esserci: far sì che gli errori e gli orrori del passato non si riflettano sul presente; far sì, in altri termini, che ciò che è stato non sia di nuovo.
L’intervista a Tarcisio Benedetti, autore di Alborada. La rotativa della libertà
Tarcisio, cosa ti ha spinto a scrivere il libro Alborada?
“Ho scritto il libro per due motivi. In primo luogo, non volevo perdere la storia. Tutti mi dicevano: ‘Perché non scrivi quello che ti è successo? È una storia bellissima!”. Il fatto che una organizzazione non governativa riuscisse a intervenire nell’andamento della politica di un paese dove c’era una dittatura che esercitava un dominio incontrastato è stato importante. Con il nostro semplice stampare i giornali abbiamo contribuito a rovesciare il regime e a far tornare la democrazia. Mi sarebbe dispiaciuto, se questa storia fosse andata persa.
Il secondo aspetto riguarda proprio le ONG. Sentivo il bisogno di spezzare una lancia per queste organizzazioni, perché le ONG, al di fuori dei grandi rapporti diplomatici e governativi, instaurano relazioni umane profonde con le persone con cui si trovano a collaborare. Superano qualsiasi barriera, pregiudizio o difficoltà. Le relazioni sono importantissime: con il mio progetto, avendo ottenuto obiettivi importanti, avevo aperto le porte a tutta una serie di rapporti anche economici tra imprenditori italiani e cileni.
Alcuni di loro sono venuti in Italia per vedere quali prospettive ci fossero per aiutare il Paese. Certo, molti sono venuti con prospettive di speculazione e non di cooperazione, ma almeno l’apertura c’era. Questa relazione tra una ONG e la realtà cilena ha aperto prospettive enormi. Le ONG, oggi, sono mal considerate per la storia dei migranti; in realtà, non sono prese in considerazione né dall’opinione pubblica né dal governo, che, di fatto, non investe su questi istituti”.
In alternativa al servizio militare, tu hai scelto il servizio civile; ma perché hai scelto proprio il Cile?
“In Cile, a quel tempo – parliamo del 1973 -, il presidente Allende stava realizzando un piano complicato che tutta l’Europa stava guardando: la via cilena al socialismo. La Sinistra non era riuscita ad andare al governo democraticamente in nessun Paese occidentale, a parte a Cuba, dove c’è stata una rivoluzione. In Cile, invece, c’era questo obiettivo: la via cilena al Socialismo, che era una via democratica.
Noi tutti stavamo guardando le difficoltà enormi affrontate da Allende fino a quel momento. Come i problemi interni per la divisione dei partiti, ad esempio: c’erano infatti quelli che volevano il compromesso e quelli, invece, che non volevano scendere a patti con nessuno. I ‘duri e puri’, potremmo dire. Era molto osservato perché in Italia c’era il Partito Comunista più grande dell’Occidente, cruccio degli Stati Uniti, che proponeva il grande compromesso storico con Aldo Moro ed Enrico Berlinguer.
Eravamo tutti interessati a seguire questa esperienza. Quando mi hanno proposto di andare in Cile, ho accettato immediatamente, perché, invece di leggere le notizie sui giornali, potevo viverle direttamente. Sarebbe stata per me un’esperienza unica. Il mese dopo che ho firmato il contratto, c’è stato il colpo di stato e le cose sono cambiate anche per me”.
In Alborada parli della tua prima esperienza a Curanilahue: com’era il clima sociale quando sei arrivato?
“Curanilahue era una realtà difficile, nel senso che era opprimente: sentivi proprio un clima di rassegnazione e disillusione. La gente non aveva più obiettivi, non aveva più traguardi da raggiungere; doveva soltanto difendere il poco che aveva ottenuto. Potevano solo restare chiusi, era pericoloso esporsi. Trovavi un paese già povero – penso sia uno dei paesi più poveri del Cile – e viveva attorno alla miniera di carbone. con un lavoro già di per sé terribile, ma poi senza prospettive. Era la tragedia di Curanilahue: non avevano prospettive se non fare i minatori.
Siccome la zona era ricca di questo combustibile, molte famiglie creavano la loro miniera autonomamente scavando buchi ed estraendo carbone per guadagnare pochissimo lavorando senza sicurezza alcuna. Creare una scuola lì per dare una preparazione agli adulti e ai giovani voleva dire aprire prospettive nuove, prospettive di lavoro che sono andate perse a causa della terribile crisi economica dei primi anni. L’uscita del paese dal Patto Andino ha causato il fallimento di molte di esse e la conseguenza crescita esponenziale della disoccupazione.
Faceva molta tristezza vedere i nostri ragazzi che, dopo tre anni di scuola, non avevano prospettive se non quella di bighellonare per la piazza o di andare all’estero, in Argentina. Poi, c’era la paura della repressione militare: la notte c’era il coprifuoco, non si poteva uscire; si sentivano sirene che giravano per il paese, spari, cani che abbaiavano; e non si sapeva cosa succedeva.
Un’osservazione che ho fatto con mia moglie: le case, là, sono tutte di legno; noi abbiamo messo la testiera del letto verso l’interno, così, se avessero sparato, ci avrebbero colpito i piedi e non la testa (ride, ndr.). Se ti trovavano fuori dopo il coprifuoco, ti sparavano. Se proprio dovevi recarti in ospedale in macchina, dovevi accendere tutte le luci all’interno dell’abitacolo, stendere fuori dal finestrino con la mano un fazzoletto bianco e procedere ai 30 chilometri all’ora”.
Durante il plebiscito del 1978, hai stampato una lettera da parte del gruppo d’opposizione. Ti è capitato altre volte di aiutare la “Resistenza” durante la tua permanenza in Cile?
“Io non potevo stampare lì, perché eravamo gli unici ad avere il ciclostile e ci avrebbero identificati immediatamente. Portavo un giornale – a dir la verità, andavo a prenderlo in un paesotto lì vicino, dove stampavano il giornale della Resistenza dei minatori – e lo mettevo in uno scatolone di cartone contenente bottiglie di Pisco per trasportarlo. Lo scatolone aveva un doppio fondo e dentro ci mettevo questi giornalini di due tre paginette in formato A4. Avevo il compito di prenderli in un posto e portarli in un altro. Io non sapevo né cosa ci fosse scritto né chi li avesse scritti e doveva essere così”.
Se ti avessero arrestato, pur essendo italiano, cosa pensi ti sarebbe successo?
“Sicuramente sarei stato detenuto, poi sarebbe dipeso dal motivo. Il fatto di essere italiano mi teneva un po’ più al sicuro, per certi versi, perché avrei potuto mettere in moto l’ambasciata. Lavoravamo per la diocesi di Concepción e, quando abbiamo avuto problemi, si è mosso il vescovo: ci ha portati dalle suore e siamo stati rinchiusi tre quattro giorni. Avevamo vantaggi rispetto ai cileni, ma era ugualmente pericoloso. Se finivi nelle mani di qualche esaltato, soprattutto, allora cominciavano le torture. Era la prima cosa che facevano”.
La stampa era quasi totalmente a favore del regime, nei primi anni della dittatura. Cosa pensavate dell’informazione in quel periodo? La popolazione sapeva cosa stava realmente accadendo?
“È difficile dirlo. Il problema era che controllavano tutta l’informazione: due canali televisivi, i giornali, le radio, che tra l’altro suonavano tutte la stessa musica. Nessuno poteva capire cosa stesse veramente succedendo; al massimo, venivi a saperlo per vie traverse. Il fatto che torturassero e che torture facessero ce l’ha raccontato una persona, una donna. È stata brutalmente torturata, i militari pensavano che fosse morta e l’hanno buttata su un carro e trasportata al cimitero. L’hanno scaricata come si scarica un camion di ghiaia e il custode, quando ha preso le salme per metterle nelle fosse comuni, ha visto che questa donna era ancora viva. L’ha portata a casa con sé e l’ha salvata e lei ha cominciato a raccontare ogni cosa, le sevizie che hanno dovuto subire lei e le altre donne.
Le cose che succedevano sono venute all’orecchio dell’opinione pubblica, ma venivano sistematicamente smentite. Non c’era nessun modo per sapere cosa stesse accadendo veramente, questo era il dramma. Pensate cos’hanno combinato con l’Operazione Colombo: sono riusciti ascrivere su tutti i giornali in caratteri cubitali che 119 ragazzi desaparecidos erano morti in Argentina uccidendosi tra di loro, quando in realtà erano stati trucidati dalla DINA, la polizia segreta di Pinochet. Ma come si fa inventare menzogne così grandi e a scriverle sui giornali? Che razza di etica avevano i giornalisti? Come hanno fatto ad accettare di scrivere menzogne per 17 anni? Capisco che un articolo possa essere più tendenzioso di un altro, ma scrivere bugie così grandi, ingannando il Paese per tanti anni… Non so davvero come abbiano fatto a esercitare la professione in quel modo. Non c’era nessuna etica professionale.
È stato questo motivo a far capire a Manuel Bustos, segretario della CUT, l’importanza dell’informazione democratica. Nel 1982, c’è stata una grossa crisi economica e i cileni erano stufi della dittatura e, soprattutto, della povertà. Sono iniziati i primi scioperi del sindacato. Bustos era rimasto scioccato dal fatto che, nonostante organizzassero scioperi coinvolgendo migliaia di lavoratori, in cui morivano anche operai uccisi dalla polizia – uccidevano sempre due o tre persone a ogni manifestazione -, nessun giornale né canale televisivo parlasse di quello che succedeva. E, se trattavano l’argomento, lo facevano definendo i manifestanti come estremisti.
L’informazione democratica era molto più importante del rispetto e dei diritti dei sindacati; ha anteposto il diritto all’informazione ai diritti sindacali. Nel 1985, quando è stato chiamato a Roma al congresso nazionale della CISL, ha formalizzato questa priorità. Prima di tutto, si doveva uscire dalla chiusura dell’informazione, altrimenti la gente si sarebbe assuefatta completamente ai modi di fornire le notizie del regime. L’informazione democratica era indispensabile. Bustos appoggiò immediatamente l’esperienza del Fortín Mapocho, che ebbe un effetto dirompente. Quando il quotidiano riferiva un fatto accaduto, gli altri non potevano più fare gli gnorri: dovevano commentare e parlare di quel fatto, mentre prima non lo nominavano nemmeno”.
La prima volta, sei scappato dal Cile: come hai fatto a rientrare? Non eri stato segnalato?
“Quel giorno, tornavamo da una visita a Concepción. Avevamo già preparato le valige per il rientro ed era già arrivato il volontario che ci avrebbe sostituito. Siamo arrivati verso sera e, scesi alla fermata del tram, abbiamo trovato un amico ad aspettarci. Voleva avvisarci che i carbineros ci stavano aspettando a casa, dunque di non rientrare. Mi ha portato a casa sua. Ci hanno invitato a cena, ma era difficile pensare al cibo in quella situazione. Nel frattempo, poiché c’erano le missioni nelle parrocchie, erano arrivati tre o quattro preti da Concepción. Uno di loro ci ha caricati sulla camionetta e ci ha condotti in un convento di suore, a una quindicina di chilometri, e lì siamo rimasti per tutto il periodo delle elezioni.
Le radio, le televisioni e i giornali avevano cominciato a definirci extremistas italianos e quindi siamo rimasti nascosti. Nel frattempo, si è mosso il vescovo. Ha rassicurato sul fatto che non fossimo estremisti, ma l’importante era che, in ogni caso, non ci prendessero. Lui ci ha portato a Concepción con la sua macchina e da lì voleva farci arrivare all’ambasciata italiana, in modo che fossimo salvi. Tuttavia, viaggiando di notte, avremmo trovato molti posti di blocco; così, abbiamo optato per il treno che da Concepción arrivava a Santiago. Una volta a Santiago, siamo andati in ambasciata.
La cosa veramente importante era non creare il caso: se fossimo andati in ambasciata come rifugiati, allora tutti i giornali italiani avrebbero attaccato l’ambasciata stessa per aver protetto persone che potevano aver commesso chissà quali misfatti. Tutto doveva rimanere in sordina, perciò l’ambasciata ci ha mandato in un altro convento di suore. Siamo rimasti lì una decina di giorni, finché da Roma ci hanno mandato i biglietti prepagati. Abbiamo preso il primo aereo che dal Cile andava in Bolivia per uscire dal Paese. Una volta arrivati lì, eravamo tranquilli: l’importante era non farlo diventare un caso nazionale”.