Nessuna persona di buonsenso può negare che la forbice sociale, intesa come divario fra la condizione economica della stragrande maggioranza della popolazione rispetto alle fasce dei c.d. super-ricchi da molti anni si stia allargando in modo preoccupante ed eticamente intollerabile, mettendo a rischio la tenuta stessa della coesione sociale. L’1% più ricco della popolazione mondiale detiene più ricchezza del restante 99%. I 2/3 dei patrimoni dei più facoltosi miliardi del mondo non sono frutto del loro lavoro bensì beni ereditati, o scaturiscono da rendite monopolistiche. La disuguaglianza desta seria preoccupazione anche in Italia. A metà 2017 il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre il 66% della ricchezza nazionale netta, il successivo 20% ne controllava il 18,8%, lasciando al 60% più povero appena il 14,8% della ricchezza nazionale. Secondo il CENSIS nel 2017 il 12,4% degli occupati nella classe di età 20-29 anni (oltre 300.000 persone) era a rischio povertà. Le situazioni di maggiore precarietà risultano più accentuate tra gli occupati che svolgono lavoro autonomo o indipendente (18,1%) rispetto ai dipendenti (11,2%). Più in generale, tra il 2000 e il 2017 in Italia il salario medio annuo è aumentato in termini reali solo dell’1,4%, pari a 400 euro annui, contro i 5.000 euro della Germania (+13,6%) e gli oltre 6.000 della Francia (+20,4%). Nello stesso arco di tempo gli occupati nella fascia 25-34 anni sono diminuiti del 27,3% (oltre un milione in mezzo in meno), quelli tra i 55 e i 64 anni sono aumentati del 72,8%. Nel giro di un decennio si è passati da 236 a 99 giovani occupati ogni 100 anziani. Di fronte a questi numeri appare in tutta evidenza che un intervento da parte dello Stato, in tutte le sue articolazioni, risulta quanto mai necessario, da un lato sul fronte delle politiche per il lavoro dall’altro introducendo misure fiscali (anche patrimoniali) o di trasferimento monetario volte a ridurre il livello di disuguaglianza dei redditi. Partendo da questa premessa, che ritengo difficilmente contestabile, si tratta di capire quali risposte e relativi strumenti adottare. La misura ad hoc che è stata approvata lo scorso 17 gennaio è l’ormai famoso Reddito di Cittadinanza. Appurato che nella versione attuale esso si configura in termini del tutto differenti rispetto a quella “storica” del 2013, allorquando si connotava come una sorta di trasferimento universale dato a tutti coloro i quali per qualsiasi motivo non raggiungevano una soglia minima di reddito, il Reddito di Cittadinanza restringe di molto la platea dei beneficiari ed è attribuito solo a chi si trova in una condizione di povertà assoluta in cambio di formali impegni di reinserimento lavorativo e sociale, ammesso e non concesso che l’offerta di nuova occupazione possa incrociare senza problemi la domanda . Tale provvedimento da aprile sostituirà il Rei, introdotto per questo scopo dai Governi precedenti. Essendo una misura finanziata in deficit, l’anno prossimo richiederà l’aumento dell’Iva o di altre imposte, ovvero tagli di Bilancio consistenti. Di conseguenza l’effetto espansivo/moltiplicativo è tutto da valutare alla luce di quanto accadrà nel biennio 2020-2021. I 780 euro al mese previsti per il singolo variano sulla base di parametri prestabiliti ed aumentano in relazione ai componenti del nucleo familiare ma non in termini proporzionali. Le stime su quante saranno le domande divergono in misura consistente: sono circa 3 milioni le dichiarazioni Isee inferiori a 9.000€, ma non è detto che tutti gli aventi diritto ne facciano richiesta così come molte famiglie che non hanno mai presentato l’Isee e si trovano nelle stesse condizioni potrebbero farlo per la prima volta. Una lettura attenta del Decreto evidenzia che gli importi pagati saranno piuttosto aleatori dal momento che prevede la possibilità di ridurre le somme erogate, a tutti indistintamente, qualora le risorse disponibili siano inferiori alla sommatoria monetaria delle domande. L’Esecutivo afferma che circa la metà delle richieste proverrà dalle regioni del centro-nord, ma altre stime asseriscono che i 2/3 dei beneficiari risiederanno al sud. Molti, a mio avviso legittimamente, avanzano dubbi sull’esito del provvedimento. I Centri per l’Impiego, che assumeranno molte delle funzioni che ora il Rei attribuisce ai Comuni e che sinora hanno dato scarsissima prova di funzionalità ed efficienza, adempieranno in modo non dico ottimale ma perlomeno accettabile ai nuovi compiti o tutto si tradurrà in un trasferimento monetario di fatto privo di condizioni? E chi si occuperà di questa immensa mole di controlli per evitare truffe ed abusi? Non sarebbe stato più saggio aumentare progressivamente gli importi e la platea di beneficiari del Rei, soprattutto in un Paese come il nostro dove il contrasto all’evasione fiscale ed al lavoro nero è ben lungi dall’aver raggiunto risultati soddisfacenti? Infine alcune considerazioni sulla figura del Navigator, il quale dovrebbe avere il compito di marcare a uomo (nonostante la sproporzione numerica) i vari beneficiari del Reddito di Cittadinanza, fornendo loro assistenza e indirizzandoli nella ricerca di una nuova occupazione. Fonti governative assicurano che i 10.000 Navigator saranno tutti stabilizzati onde evitare potenziali conflitti di interesse con gli assistiti. Il problema è capire nel concreto cosa faranno visto che, essendo a loro volta ex precari e quindi poco esperti del Mercato del lavoro difficilmente saranno in grado di fornire servizi specifici che vadano al di là di una conoscenza di base degli strumenti informatici e di una analisi piuttosto elementare delle proposte di assunzione delle Imprese. I prossimi 5-6 mesi ci daranno le prime indicazioni sul successo o sul fallimento di questo provvedimento: nel secondo caso, visti i costi e le modalità del suo finanziamento, temo pesanti ripercussioni economiche, sociali e di credibilità internazionale.
Andrea Panziera