di Andrea Panziera.
Una delle frasi/accuse ricorrenti della classe politica “a la page” contro gli avversari è quella di avversare il sentimento popolare. La primazia della interpretazione della volontà dell’uomo comune travalica qualsiasi analisi dei contesti, della correttezza e coerenza del pensiero, della fattibilità dei propositi.
Assistiamo così ad una rincorsa all’ingiù del linguaggio, della qualità delle idee, dei comportamenti quotidiani di chi dovrebbe essere di esempio e guida per i cittadini. Io parlo e ragiono come parla e ragiona la maggioranza delle persone della strada, quindi per questo semplicissimo motivo ho ragione e sono legittimato a guidare il Paese. Il circuito “governanti, o aspiranti tali, e governati” assume di conseguenza una semplificazione estrema: non si tratta più di elaborare una mediazione razionale e sostenibile, socialmente ed economicamente, fra le diverse istanze che provengono dalla collettività nella sua complessità e nelle varie articolazioni che esprime, bensì molto più banalmente di lisciare il pelo a quella che di volta in volta i sondaggi identificano come la maggioranza degli aventi diritto al voto.
L’ars politica si riduce così a una sottospecie di tenzone equina, dove i più scaltri e abili cavalcano gli umori, i mal di pancia, le pulsioni anche belluine di quella parte della popolazione (il popolo, scusate, è un’altra cosa!) che nel segreto dell’urna può fare la differenza; l’importante non è solo essere provetti fantini, ma all’occorrenza astuti stallieri, buoni conoscitori e dispensatori della biada migliore da adoperare alla bisogna per vincere la gara.
Si tratti di promesse farlocche e incompatibili con qualsiasi sana gestione di un sistema economico, di difesa di interessi non propriamente commendevoli, di nemici di ogni genere o colore da additare al pubblico ludibrio (in questo caso, meglio se l’azione viene corroborata da una robusta concimazione preventiva di odio), tutto è giustificato in nome della volontà del popolo.
E poco male se qualche voce si leva per mettere in dubbio, dati alla mano, che le cose non stanno effettivamente così, che si rischia una deriva dagli sbocchi imprevedibili, che esistono compatibilità economiche non eludibili, che in uno Stato che funziona è sempre meglio affidarsi al merito come criterio di selezione della classe dirigente piuttosto che ai tribuni aizzatori e megafoni degli umori della piazza. Coloro i quali, magari in forza di anni di studi specialistici, di master prestigiosi, di riconoscimenti accademici internazionali, osano avanzare dubbi e distinguo, diventano “ professoroni” o biechi rappresentanti della casta.
Il giudizio dell’uomo della strada e dell’avventore del bar è equiparato a quello dell’esperto e la cultura considerata un orpello fastidioso e inutile.
Siamo di fronte alla versione moderna del “panem et circenses” che oggi, grazie alla circostanza che il pane per fortuna non manca, si declina con demagogia a buon mercato e fratellanza con le curve ultras.
Pongo umilmente una domanda: ma quale alternativa rimane a quei giovani che credono ancora nel valore della meritocrazia se non quella di alzare le vele e approdare verso lidi più in sintonia con le loro idee e aspirazioni?