Intervista a Mabe: con opere essenziali e profonde, torna nel 2025 con Homo Viator, un viaggio tra silenzio, condivisione e ascolto.
Di: Sofia Boscagin
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Originaria di San Bonifacio (VR) e formata all’Accademia di Belle Arti di Venezia, Marina Bertagnin — in arte Mabe — ha portato la sua arte in diverse città italiane ed europee, fino a sbarcare nel 2009 al Louvre di Parigi.
Artista poliedrica e profonda, Mabe sfugge ad ogni definizione, spaziando tra scultura, pittura, installazioni e performance art. Filo conduttore delle sue creazioni è il silenzio, “luogo” in cui lo spettatore è invitato a rallentare, riflettere, ascoltarsi.
Le sue opere, apparentemente essenziali, nascono da materiali semplici e naturali come la terracotta, le fibre e il rame, e si caricano di significati profondi, frutto della sua ricerca sul mondo interiore dell’uomo e del suo interesse per le tematiche sociali. La sua è un’arte viva, che abita il proprio tempo e dialoga con gli ambienti circostanti. Le sue mostre sono impossibili da dimenticare: colpiscono il cuore e vi si stanziano. Marina, con le sue mani, dà forma alla nostra essenza.
“Cucire è un modo di ascoltare, è arte ed esercizio, è congiungere l’emisfero della razionalità con quello creativo dell’immaginazione (…) ma soprattutto raggiungere distanze, addentrarvi e rinsaldarle tessendo ponti o serrando rive.”
Dopo il suo ultimo successo, ”Ago e Filo. Chi cuce ama”, con il quale ha rammendato le fratture del nostro tempo, torna nel 2025 con un nuovo progetto: ”Homo Viator”, esposto a Venezia, nella scuola San Pasquale, e a San Bonifacio nello Spazio Espositivo “S.A.L.E.”.
Homo Viator: uomo in cammino
Mabe, attraverso i suoi passi, racconta il pellegrinaggio dell’uomo alla ricerca di significati profondi, che lo connettono al mondo e alla propria “casa“, luogo interiore che custodiamo fin dall’infanzia.
“Noi tutti possiamo essere Casa. Terra fertile che accoglie o arida steppa che respinge.”

Marina, da dove nasce questo progetto? Cosa ti ha spinta a “camminare” in questa direzione?
«Il progetto, come spesso accade nelle mie ricerche, è iniziato incrociando un articolo il cui incipit era proprio il titolo Homo Viator. E come succede nella vita, le parole che ho letto e l’approfondimento che ho incontrato nelle pagine seguenti hanno toccato alcune corde che già da tempo risuonavano dentro di me.
Spesso mi sono fermata a ragionare sul mio andare, sulla mia direzione, sulle scelte nei bivi che si presentano quotidianamente. Questo mi ha permesso di focalizzare l’attenzione sulla libertà di decidere dove andare. Sempre di più a questa riflessione si affiancava il paradosso che il nostro andare resta una libertà potenziale, perché molti sono costretti a fare strade loro malgrado, o a fare viaggi che non gli appartengono.
È partito tutto da qui: tutto il mio ragionamento, tutte le mie ricerche che ho iniziato ad archiviare e a moltiplicare, cercando fonti, ma soprattutto scavando nella mia esistenza e in quella delle persone che incontro quotidianamente, in famiglia o per lavoro».
Ciò che racconti è un pellegrinaggio verso un nostro spazio interiore, una “casa” in cui abitiamo e ospitiamo i nostri cari. Pensi che oggi, in un mondo veloce e digitale, stiamo perdendo questa dimensione?
«In realtà, ciò che penso riflette quello che molti sociologi stanno studiando e mettendo in luce. Io stessa, pur tentando di coltivare una quotidianità a ritmo della natura, cerco di non farmi aggredire dal tempo che corre, dalla frenesia e dal martellamento che questa società ci induce a rispettare con ritmi innaturali.
Non so se si stia perdendo la dimensione del cammino lento e condiviso, ma, per quel che mi riguarda, sto creando attorno a me occasioni di condivisione organizzando degli apericena nel mio giardino con amici e conoscenti, per trascorrere momenti — purtroppo ormai rari — di lentezza e di amicizia. Mi impongo di non cedere alla tentazione di fissare lo schermo alla ricerca di chissà cosa; piuttosto insisto a dedicarmi alla lettura, che considero non solo nutriente, educativa e piacevole, ma anche un’occasione di dialogo.
Non rinuncio infatti a continuare a parlarne con chiunque entri nel mio laboratorio, nella mia casa-studio o negli spazi che frequento, per esprimere il traboccante entusiasmo che mi dà la lettura, alla ricerca della manifestazione artistica o di riflessione, che sia musicale, culinaria o in qualsiasi ambito in cui questa energia possa trovare ossigeno. È un dono che spesso non riconosciamo.
Questo significa che ognuno di noi dentro di sé custodisce uno spazio in cui vi è la tensione e l’ambizione di “trovare casa” nel senso di calore, abbraccio, condivisione. E al tempo stesso, accorgersi che la gioia più grande è quella di offrire tutto questo, in modi diversi, a chiunque ci circondi, ammettendo con gioia che questo desiderio ci accomuna».
Centrale è il tema del viaggio, delle radici, degli orizzonti. Cosa cerchiamo, di cosa abbiamo bisogno? In questo che ruolo ha il silenzio?
«Mi chiedi cosa cerchiamo, ma forse la domanda giusta sarebbe: come stiamo?
Penso infatti che ogni nostro movimento, ogni nostra ambizione e percorso siano mossi da ciò che proviamo e da ciò che ci fa stare bene. Spesso mi accorgo che in molti sono “seduti” sulla loro vita: delegano e affidano la propria felicità a chi, in quel momento, passa sulla loro strada e risulta funzionale a questo scopo. Ma finché non ci si alza per cambiare prospettiva, non avremo pienezza.
Ecco perché, nella mia ricerca e in questo progetto, ho cercato di scuotere innanzitutto me stessa, per non rinunciare all’essere un’attivista, un’operaia che non risparmia energie a favore della pace e della felicità. Fondamentale e per me vitale è che qualsiasi progetto che intendo realizzare e condividere con altri deve necessariamente essere un’occasione di trasformazione. Ciò che conta è che chi incrocia una delle mie realizzazioni o progetti non se ne vada via uguale a prima, ma quantomeno abbia potuto vivere l’emozione di sentirsi toccato. Ancora meglio, che si ritrovi a porsi anche solo una domanda.
Tutto questo può venire solo nel silenzio che è una disposizione anch’essa rara ma necessaria. Le sculture e i quadri, pur non emettendo suoni, comunicano anche l’immenso: ecco perché, nel silenzio, si creano le condizioni per non inquinare la costruzione di sé con le distrazioni».
Spesso accompagni le tue opere con didascalie e poesie. Nel tuo processo artistico, che ruolo ha la scrittura?
«Per quel che riguarda la narrazione, considero le mie ricerche, le mie letture, le mie chiacchierate e dialoghi con persone che considero nutrienti — anche dal punto di vista spirituale — come “l’opera prima”: un groviglio di tracce e lo scarabocchio di graffiti che, sempre di più, si intrecciano ed intessono dentro di me la trama che in un secondo momento prende forma e colore.
La parte più complicata, per me, è riuscire a fare delle mie realizzazioni dei trattati tridimensionali, che in un solo sguardo o con lo sforzo di scrutare nelle forme e nei colori — sappiano restituire l’essenza del messaggio, frutto di innumerevoli ricerche e fioriture».
C’è un’opera, tra quelle esposte, che consideri il cuore di questo percorso?
«La piccola casa in terracotta che completa alcune figure di Homo Viator è un dettaglio che mi sta molto a cuore, perché riassume, in questo mio viaggio, l’essenza del significato: cercare, e al tempo stesso donare Calore».
