Tra propaganda, tregue precarie e narrazioni distorte: cronaca surreale di una guerra lampo che ha lasciato il mondo più fragile di prima

Di: Andrea Panziera

LEGGI ANCHE: Post It – Ciofakeosi’s time

“Dopo 12 giorni la guerra è finita, scambiamoci il segno della pace”. Non ha usato esattamente queste parole, ma più o meno il senso è quello. Il tycoon assiso alla Casa Bianca, peraltro solo nei rari momenti in cui non è occupato in impegnativi incontri di golf, con il cappellino MAGA da “bimbo minchia” perennemente calato sul capoccione anche durante i meeting internazionali, con l’unica varante del colore, ha stabilito un nuovo record: il cambio di opinione più veloce della storia. A rileggere le sue dichiarazioni delle ultime due settimane ci si rende conto che nell’arco delle ventiquattrore è riuscito a dire tutto ed il suo contrario almeno una decina di volte, spesso a distanza di pochi minuti dall’affermazione precedente.

Se i lettori non ci credono, li invito a rileggersi gli interventi, dal vivo o via social, del Presidente U.S.A. dal 12 giugno in poi, giorno di inizio delle ostilità. Io mi sono preso la briga di farlo ed ho ricavato la netta sensazione che l’agenda gli sia stata dettata da Netanyahu, il quale con il suo attacco aereo di fatto l’ha messo con le spalle al muro; a quel punto l’unica alternativa possibile per non fare la figura del “minus habens” era quella di mettere il cappello americano sull’iniziativa militare, mobilitando i mezzi più potenti e distruttivi a disposizione e attribuendo a questo intervento la fine delle ostilità.

Game over? Così vuol far credere Trump, secondo il quale l’uso della forza finalizzato al raggiungimento della pace costituisce un modus operandi infallibile. Evito di commentare il codazzo di echi, più o meno compiacenti allineati a questa teoria: se l’obiettivo era quello di far cessare per qualche periodo, indeterminato nella durata e con effetti non esattamente quantificabili, una guerra che rischiava di coinvolgere altri attori regionali, beh, il risultato è stato raggiunto. Se questo significa qualcosa di più e diverso da una fragile e provvisoria tregua fra due Stati e due mondi che continueranno ad odiarsi, nutrirei molti dubbi in proposito. In pochi minuti in quel di Washington si è passati dal MIGA ad un meno enfatico “avrei potuto farlo fuori, ma l’ho risparmiato perché la destabilizzazione sarebbe stata una catastrofe”, mentre a Tel Aviv si continua a ripetere che l’obiettivo prioritario, ieri oggi e domani, rimane il cambio di regime a Teheran, con una evidente e non celata dissonanza dei rispettivi punti di vista. L’aspetto paradossale, ma ad una analisi attenta degli avvenimenti e delle loro conseguenze forse neanche tanto, è che tutti alla fine dichiarano di aver vinto.

Gli israeliani, che confermano la loro predominante forza bellica nell’area medio orientale e si ritengono dispensati dal seguire i “desiderata” del loro principale alleato; Trump, che rivendica la dimostrazione di geometrica e decisiva potenza del suo intervento, al cui risultato ascrive la fine del conflitto, ma persino l’Iran festeggia con manifestazioni di piazza, urlando al mondo la sua indomabile capacità di resistenza e parlando di umiliazione inferta al nemico.

Ciliegina sulla torta, si è aperta nei media di tutto il mondo la querelle sugli effettivi danni inferti all’apparato del sistema nucleare degli Ayatollah. Le immagini ed i report a disposizione, inclusi alcuni video e foto precedenti i giorni degli attacchi, si prestano a molteplici interpretazioni: tuttavia, se fonti interne all’Amministrazione americana molto accreditate parlano di distruzioni rilevanti, ma non decisive e di concrete possibilità che ingenti quantitativi di uranio arricchito siano state messe al sicuro prima degli attacchi, allora la questione dell’Iran come potenza nucleare “in fieri” si riproporrà non fra molti anni, bensì in tempi assai inferiori, forse mesi. Tuttavia, alcune considerazioni sugli effetti di questa anomala “blitzkrieg” meritano una attenta valutazione, soprattutto per le possibili e invero probabili conseguenze. Per quasi due settimane è stato oscurato quello che sta accadendo a Gaza; di questo passo, la questione palestinese rischia di essere risolta nel modo più brutale, con l’eliminazione del problema “ab origine”, ossia la soppressione fisica di massa della popolazione.

Chi si scandalizza di fronte alla parola genocidio dovrebbe avere la compiacenza di definire in termini eticamente accettabili il massacro quotidiano di uomini, donne e bambini in fila per ore con la speranza, spesso vana, di ricevere un chilo di farina o qualche pezzo di pane. Mi chiedo: questa generazione di giovani palestinesi riuscirà mai a liberarsi del rancore accumulato in questi anni, ammesso e non concesso che riesca a vedere l’alba di un nuovo giorno, oppure darà sfogo a tutto il suo carico di odio nei modi che tristemente conosciamo non appena ne avrà la possibilità?

La guerra dei 12 giorni e l’impotenza su quanto sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania, dove i coloni ultranazionalisti ogni giorno riaccendono le loro mire espansionistiche, hanno evidenziato il perdurante stato confusionale delle Istituzioni europee, se mai fosse stata necessaria una conferma. Divisi su molte questioni, incapaci di una narrazione comune senza infingimenti o cavillosi distinguo, esse navigano a vista seguendo una rotta indefinita. Solo alcuni di essi, Sanchez Macron la Kallas in questi giorni, sembrano conservare una postura diritta senza indulgere ad ingenui ammiccamenti con l’alleato a stelle e strisce, ammesso che possa ancora definirsi tale a tutti gli effetti. L’agenda Draghi, l’unico punto di partenza credibile per costruire un’Europa coesa, forte e non genuflessa, sembra essere stata riposta nel cassetto delle buone intenzioni che rimarranno tali in eterno. L’indecoroso cedimento sulla tassazione globale delle multinazionali, con l’esenzione delle Big Tech statunitensi, assomiglia ad una resa senza condizioni più che ad un millantato “onorevole compromesso”.

Da ultimo, il quotidiano teatrino trumpiano ha per il momento oscurato le notizie sul reale stato dell’economia U.S.A. Qualcuno obietterà che i mercati finanziari, dopo alcuni mesi di incertezza, sono tornati sui massimi, in qualche caso superandoli. Vero, ma da diligente studioso dei dati reali, non posso fare a meno di notare che la rilettura finale del Pil del primo trimestre del 2025 registra una contrazione dello 0,5%, più netta rispetto alla flessione dello 0,2% precedentemente stimata.

Gli altri principali parametri macroeconomici, se si esclude parzialmente il mercato del lavoro, segnalano trend non proprio positivi e tutti i principali Organismi internazionali e gli Istituti di statistica stanno pubblicando previsioni a breve – medio termine che non promettono nulla di buono. Della rivoluzione monetaria in atto promossa da Trump, che concede pari dignità valutaria alle riserve in denaro fisico e a quello digitale, ne parlerò in un prossimo contributo, ma vista l’assenza di sottostante con un valore certo, la mente non può che trovare nelle vicende storiche degli Stati Uniti la probabile nefasta conclusione di questo azzardo. Per chi nutrisse qualche curiosità in proposito, consiglio di rileggere quanto accadde due secoli or sono sotto la presidenza di Andrew Jackson.

Ah, dimenticavo, le Borse! Sul Titanic si ballava, mentre la nave stava affondando; anche nel 1929, guarda caso quasi un secolo fa, o nel 1986 o ancora nel 2008 i mercati sembravano lanciati in rally inarrestabili e sappiamo com’è andata a finire.