Henrikh Mkhitaryan, il calciatore che rompe gli stereotipi del calcio moderno tra sobrietà, valori e dedizione dentro e fuori dal campo

Di: Andrea Panziera

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Lo stereotipo più diffuso del calciatore professionista è quello di “genio e sregolatezza”, che in alcuni casi raggiunge un’ iperbole simbiotica. Il pensiero corre subito a quello che da molti viene considerato il più grande fra i giocatori di tutti i tempi: Diego Armando Maradona. La sua vita è stata costellata da eccessi di ogni tipo, che ne hanno minato la salute e infine condotto ad una precoce dipartita. Ma non si tratta di un caso isolato, tutt’altro. Si pensi a George Best, a Paul Gascoigne ed a tanti altri, più o meno famosi. Ma, più in generale, anche senza raggiungere l’acme dell’autodistruzione, molti loro colleghi ai giorni nostri non ottengono gli onori delle cronache per comportamenti virtuosi, in campo e fuori, bensì per atteggiamenti bizzarri o infantili, per abbigliamenti che con estrema benevolenza potremmo definire estrosi, per corpi su cui non esiste più un cm quadrato libero da un tatuaggio, per spese in beni di scarsa o nulla utilità, ovvero reiterate e sfacciate ostentazioni di lusso senza limiti, che quasi sempre sconfinano nella pacchianeria. La filosofia del Marchese del Grillo elevata alla ennesima potenza, con la non rilevante differenza che oltre al sapiente tocco della palla in molte menti esiste un vuoto cosmico di idee e valori, condito dalla difficoltà di articolare un pensiero compiuto che si innalzi seppur di poco dalla più vieta banalità. In qualche caso, allo sperpero di danaro si accompagnano comportamenti illeciti, che minano la credibilità delle competizioni. Ed anche durante le partite capita di assistere a sceneggiate inverosimili o a gesti e atteggiamenti volutamente violenti o provocatori. E’ vero, una ben distribuita minoranza a fine carriera si è riciclata come allenatore o come competente commentatore televisivo, nell’uno e nell’altro caso corredando la seconda vita lavorativa con risultati degni di nota o con equilibri di giudizio e doti comunicative di certo apprezzabili. Ma si tratta quasi sempre di figure ben oltre la quarantina, appartenenti alle generazioni precedenti, che già sul terreno di gioco si facevano apprezzare per moderazione e fuori dal campo per uno stile di vita piuttosto sobrio e volutamente lontano dai riflettori della cronaca. Questi calciatori, ieri come oggi, costituiscono la risorsa che ogni società e ogni allenatore vorrebbe avere a disposizione. Merce rara, in un ambiente pieno di tentazioni e con giri vorticosi di danaro che inebriano e offuscano le menti. Uno di questi è Henrikh Mkhitaryan, che in una recentissima intervista ha parlato della sua privata e fra le righe si è intuito il perché Simone Inzaghi non rinunci praticamente mai al suo apporto. Fra le altre, queste alcune delle risposte alle domande poste dal giornalista che lo ha intervistato. E’ vero che a Manchester spegneva il telefono tre giorni prima di giocare? «No, succedeva in Ucraina. Ma in realtà lo spegnevo dopo le partite, proprio perché ero molto autocritico». Lo fa anche adesso? «No, ma uso il telefono il meno possibile. Ho due bambini piccoli e non voglio che mi vedano passare il tempo con lo smartphone in mano”. Lei è un calciatore senza fronzoli. Si sente un antidivo? «Sì, non mi interessano i tatuaggi, cantare, o farmi i capelli strani: guardi qui, ho due buchi sulla testa ma non mi interessa. È la natura». “Champions? Ci crediamo, ma l’Inter non molla nulla. Voglio sempre giocare. Stagione iniziata male, ma ora sto crescendo. Faccio di tutto per tornare alla forma migliore””. E sul trapianto di capelli, sembra un attacco a due suoi compagni che si sono rifatti la chioma. (ride) «No, per niente! Ognuno fa quello che vuole” . Ha studiato? «Sì, ho due lauree: una in Sports Management e l’altra in Economia». È vero che parla sette lingue? «Cinque: armeno, russo, francese, inglese, italiano. Il tedesco lo parlavo, ma l’ho dimenticato». In che lingua pensa? «Se parlo italiano penso in italiano». In che lingua impreca? «Non dico parolacce. Non mi piace». Questa intervista andrebbe riproposta alle scuole calcio dei ragazzi, obbligando i loro padri, che sugli spalti si prendono a cazzotti o insultano l’arbitro per un fallo non fischiato o per un presunto torto subito dal figlio, a riflettere sulla loro pessima interpretazione della funzione genitoriale. Grazie per la tua testimonianza, Miki.