Iniziare dalla fine non è sempre un’ottima mossa, eppure in questo caso il punto di partenza ha poca importanza. E infatti come prima scena è stata scelta proprio questa: il corpo esanime di Stefano Cucchi accucciato nel lettino di una cella del Sandro Pertini a Roma. Un medico entra per visitare lui in pessime condizioni detenuto lì successivamente al suo arresto e al rapido aggravamento del suo stato di salute. Prova a svegliarlo, ma è tardi, troppo tardi. Ed è questo Sulla mia pelle: una questione di tempo. Perché quando l’essere umano perde di vista quel che conta, e si lascia sopraffare dalle emozioni a poco prezzo dimenticando l’importanza primaria del suo ruolo nel mondo, la catastrofe è vicina.
Non servono tante parole per raccontare il film che targato Netflix e diretto da Alessio Cremonini (al suo secondo progetto come regista) è stato presentato ad apertura della sezione “Orizzonti” del 75° Festival di Venezia.
Il caso di cronaca nera che ha macchiato la storia della capitale è stato finalmente portato nel cinema a pochi anni di distanza. Era l’ottobre del 2009 quando il giovane romano (nel film interpretato dal bravissimo e ormai affermato Alessandro Borghi già noto per Non essere cattivo e 1992) fu arrestato dai carabinieri per possesso e spaccio di sostanze stupefacenti. Nonostante il passato da tossicodipendente, le sue condizioni al momento dell’arresto erano stabili ma dopo aver deciso per la custodia tutelare del ragazzo che venne poi processato con rito direttissimo, al momento della visita riportava su viso e corpo evidenti ematomi.
Cucchi era stato picchiato dai detentori ma non rivelò mai né al padre né ai medici tale avvenimento.
Tra le disattenzioni dello staff clinico e una trattazione del caso pressapochista al punto da non essere neanche riusciti a permettere la visita dei parenti di Stefano, solo dieci giorni dopo muore per malnutrizione e mancata cure mediche.
Quando ai familiari giunge la notizia, tramite richiesta firma per autorizzazione all’autopsia, l’oltraggio è inaccettabile e da quel momento la sorella Ilaria (nel film Jasmine Trinca) è stata impegnata fino al 2016 (e ancora non ha smesso di lottare) per restituire dignità e giustizia al fratello minore.
Un film non facile da fare né tanto meno da proporre a un pubblico che si è mostrato sin da subito pieno di interesse e desideroso di partecipare allo sdegno pubblico nei confronti di questa vicenda. Ed è così che Sulla mia pelle porta con sé nella desolazione risultando disturbante alla visione e quasi “pesante”.
Nonostante infatti chiunque sia già a conoscenza come andrà a finire, il regista decide che lo spettatore deve arrivare alla fine molto lentamente, trascorrendo i minuti quasi come fossero state le giornate di Stefano. Una lunga scena silenziosa dietro l’altra intrisa di blu, grigio e viola come i lividi sul suo corpo. È particolare ed è evidente che l’interesse dietro alla sua realizzazione non è stato per puro stilismo artistico quanto piuttosto per raccontare e ricordare una storia che non deve essere dimenticata.
E dunque se raccontare i fatti sarebbe stato troppo riduttivo, arriva qui la vera nota particolare di questo film: la sua efficace incidenza su chi guarda. Quella terribile sensazione di impotenza fermo sulla poltrona nera in una sala buia che vorrebbe portarti a valicare i limiti dello schermo e agire.
È un film che ti rimane addosso, che si avvinghia e ti prosciuga ma soprattutto che porta all’esasperazione quando Stefano continua a rifiutare visite e cure alle richieste di uno staff medico dal facile convincimento. Non era semplice raccontare questa storia, e seppur ancora poco se ne parla, come ci ha tenuto a sottolineare Borghi in una recente intervista esortando i giovani ad andare al cinema, ha colpito senz’altro la critica e l’opinione pubblica che ancora una volta, torna a chiedere giustizia.
 
Daria Falconi
 
(ph credit E-dusse.it)